I tre missionari, e segnatamente il reverendo D. Michele Gentile, cui spettava di predicare il Rosario, avevano inculcato al popolo di recitare ogni giorno questa preghiera, tanto cara alla Vergine.
Sul finire della sacra Missione, adunque, io cominciava a vedere compiute le mie speranze, e ne rendeva somme grazie a Dio. Ma per stabilire a consuetudine di questo popolo la recita in comune della Corona, e per fare guadagnare le sante Indulgenze della Confraternita del Rosario, mi parve indispensabile porre in venerazione un quadro qualsiasi della Madonna del Rosario, innanzi al quale quella gente potesse ogni sera radunarsi per la recita della Corona.
Un quadro che rappresentasse il Rosario qui non vi era, tranne quello litografico, che come innanzi ho riferito, aveva io donato al vecchio Parroco. Ma per essere un quadro esposto alla pubblica venerazione, e per potersi guadagnar le Indulgenze, conforme è ordinato nella liturgia ecclesiastica, esso dev’essere un dipinto ad olio.
Oltre di che, non voleva la missione fosse finita senza che prima non venisse esposta la divota effige, affìnchè i tre Sacerdoti avessero lasciato al popolo, come ricordo della Missione, che dovesse ogni sera raccogliersi dinanzi a quella sacra Immagine e in comune recitar la Corona. Poichè questa era l’ultima meta che io vagheggiava nel mio pensiero.
La Missione terminava la domenica, 14 novembre. Era, dunque, necessario che io corressi a Napoli, per provvedermi di urgenza di una Immagine del Rosario dipinta ad olio. E mi recai a Napoli il mattino di sabato, giorno indimenticabile, 13 novembre di quello stesso anno ricordevole, 1875.
Cominciai a pensare e discorrere meco stesso, a chi rivolgermi per acquistare il quadro che mi bisognava. E ricordai che, passando per Via Toledo, presso la piazza dello Spirito Santo, avevo spesse volte gettato lo sguardo dentro la bottega nella quale erano esposti vari quadri e ritratti ad olio, e tra gli altri mi pareva d’aver veduto una Vergine del Rosario. Il pittore era a me ignoto, anche di nome: ma per l’aggiunto che gli si apponeva, forse dalla sua città nativa di Foggia, era comunemente chiamato il Foggiano.
Colà, dunque, determinai di andare. Se non che mi prese un certo timore di trovarmi in impaccio, non essendo stato mai buono a litigare i prezzi e discendere a patti come si usa a Napoli. – Oh, se io potessi condurre meco il P. Radente! – pensai. – Egli si, come napoletano, ha maniera di riuscire nei contratti.
Ma, come e dove trovare a quest’ora il P. Radente? Sapevo che il buon Padre da dieci anni, da che furono espulsi i Frati da S. Domenico Maggiore, conviveva con due suoi confratelli, in una casetta tolta a pigione: sapeva pure che egli era uso celebrare Messa tutte le mattine nella Chiesa del Rosario a Porta Medina. – Sta bene, – dissi in cuor mio: – mi avvierò per Toledo: se vuole Iddio, incontrerò il mio amico: altrimenti farò da me.
Ma la Provvidenza, che con mano invisibile guidava le file di un avvenimento che sarebbe stato indi a poco straordinario, volle che, giunto al Largo dello Spirito Santo, poco lungi dallo studio del pittore, m’imbattessi nel venerando Frate.
Cotesto santo Frate fu l’uomo a me mandato da Dio nel mezzo della mia vita burrascosa. Altrove dirò, per gratitudine, qualche cosa di lui e delle virtù sue; e come fu da me conosciuto. Oggi dico solo che c’incontrammo nell’esilio di questa vita nel 1865; e nell’anno 1885 ci separammo quaggiù. Ma nell’epoca di mezzo e precisamente nel 1875, accadde quel che ora dirò.
La intimità, della quale mi onorava il Padre Radente, mi fece correre col pensiero a lui, nel dover comprare un quadro, al quale, come ho detto, io non sapeva apporre il giusto prezzo. – Oh, Padre! – gridai tosto che l’ebbi veduto – per buona ventura v’incontro.
E gli esposi tutto per ordine quanto era accaduto in quei giorni a Pompei, e della venuta del Vescovo di Nola (Mons. Formisano), e del disegno di edificare una Chiesa, e di stabilirvi una Confraternita del Rosario, e finalmente del quadro che io voleva comprare. – Lo studio del Foggiano è qui vicino: – osservò il Frate: – andiamo. E vi entrammo insieme.
Era in quella stanza terrena una tela della Vergine del Rosario, ma senza misteri attorno e di piccola misura: non raggiungeva forse un metro. – Quanto costa quel quadro? – Quattrocento lire. – È troppo veramente! – esclamò il Padre. Io forse mi sarei piegato a comprarlo; ma il Padre, ammiccandomi: – Usciamo fuori.
E quando fummo sulla via: – Perché spendere quattrocento lire, – soggiunsemi, – per un piccolo quadro, quando tu ora hai la intenzione di sostenere le spese di una nuova chiesa? Sai che mi è passato per la mente, ora ch’eravamo là nella bottega del Foggiano? Io diedi da più anni a Suor Maria Concetta De Litala, nel Conservatorio del Rosario a Porta Medina, un vecchio quadro del Rosario, che comprai da un rivendugliolo in mezzo la via della Sapienza. Tu va a vederlo. Se ti piace, e ti pare che possa servirti, logoro com’è, chiedilo a lei, perché ella di certo te lo darà. È vero che è un quadro di nessun valore: lo comprai per otto carlini (3,40): ma tanto basterà per la recita del Rosario ai contadini di Pompei.
Difilato corro al Conservatorio di Porta Medina. – Desidero parlare a Suor Maria Concetta De Litala, – gridai io di fuori della grata del parlatorio. Poco stante vidi scendere la suora, che da più tempo conosceva. – Il P. Maestro Radente mi manda a voi, affinché, se vi piace, mi diate quel vecchio quadro della Madonna del Rosario che egli vi diede. Sappiate che a Pompei i poveri contadini non dicono il Rosario perché non hanno la immagine; e questa sera debbo portarla, acciocché i Missionari la mostrino al popolo, che la Missione è finita.
Quella fervorosa terziaria, che era veramente una santa donna, oggi passata al gaudio di eterna vita, – Sono contenta, – ripeté: sono assai contenta che quell’abbandonato quadro debba servire per sì bella occasione. Vado subito a prenderlo. Pochi minuti dopo vedo discendere la buona Suora col quadro.
Ohimè! provai una stretta al cuore al primo vederlo.
Era non solo una vecchia e logora tela, ma il viso della Madonna, meglio che di una Vergine benigna, tutta santità e grazia, pareva piuttosto quello di un donnone ruvido e rozzo. – Chi mai dipinse questo quadro? Misericordia! – non potei io trattenermi dall’esclamare con un’aria tra lo spavento e lo sconforto. In cuor mio sentiva che i poveri Pompeiani assai malagevolmente si sarebbero disposti a divozione rimirando quella brutta immagine.
Oltre alla deformità e spiacevolezza del viso, mancava pure sul capo della Vergine un palmo di tela; tutto il manto era screpolato e roso dal tempo e bucherellato dalla tignuola, e per le screpolature erano distaccati e caduti qua e là brani di colore. Nulla è a dire della bruttezza degli altri personaggi. San Domenico a destra sembrava non già un Santo, ma un idiota da trivio; ed a sinistra era una Santa Rosa, con una faccia grossa, ruvida e volgare come una contadina, incoronata di rose. Anche il concetto storico era sbagliato in quel dipinto.
La Regina del Rosario vi era rappresentata seduta e senza diadema in capo: ed in luogo di porgere il Rosario a San Domenico, come è di storia, lo dava a Santa Rosa: e per contrario il Bambino è quegli che consegnava la corona al Patriarca Gusmano.
Stetti in forse se lasciarlo stare, o pure portarlo così in quella distretta. Mi crucciava il pensiero che la Missione era sul finire, e quella sera stessa io aveva promesso ai tre Missionari ed al popolo il quadro del Rosario. E tutti sapevano che io era venuto a bella posta in Napoli per acquistarlo, e lo aspettavano al mio ritorno. Come comportarmi? – Non ci fate troppe riflessioni, – disse con dolce accento di rimprovero la pia suora. – Portatevi il quadro ora stesso: sarà sempre buono a fare che innanzi ad esso si reciti un’Ave Maria.
Costretto dalla necessità, ma non certo di buon animo, acconsentii. Ma come portarmelo? Ecco un altro intoppo. La grandezza di esso, largo un metro ed alto un metro e quaranta centimetri, eccedeva lo spazio concessomi dalle vetture di ferrovia. Né io poteva metter tempo in mezzo ad ordinare scatole per mandarlo altrimenti, avendo già deliberato, come ho detto, di portarlo allora meco. – Ma via, portatelo con voi, – soggiungeva santamente insistendo la suora; che fa che andate in piedi nel vagone? Portate la Madonna!… Ma questa proposta, che per attuarsi esigeva che io andassi sul treno in quarta classe, ritto in piedi, e tenendo il quadro, non mi andava a sangue.
Sopraggiunse la Contessa, mia moglie, in porteria; e la buona suora, accesa in volto, quasi donna ispirata: – Voi dovete portarlo con voi questo quadro, – le disse: – ed in questo momento. E la Contessa, per tenerla contenta, si fece dare il quadro, ravvolto alla meglio in un lenzuolo. E così in carrozza lo portammo a casa nostra, che allora era in via Salvator Rosa, n. 290. Ma il difficile era farlo pervenire la sera stessa a Valle di Pompei.
Pensando a ciò, mi venne a mente che in quel giorno il carrettiere di Pompei, a nome Angelo Tortora, (unico che faceva i viaggi da Napoli a Valle) doveva tornare colà col suo carico. Egli soleva vuotare del letame le stalle dei signori di Napoli e venderlo per la campagna.
Mandai per lui. Angelo Tortora a quell’ora aveva già riempito il suo carretto, ed era in sulle mosse di partire per Pompei. Avuta la mia ambasciata, corse di tutta fretta a casa nostra. – Angelo, – gli dissi: – tu mi farai il piacere di portare oggi stesso alla Parrocchia di Valle questo quadro, perché domani, domenica, i Padri Missionari debbono esporlo in chiesa ed introdurre nel popolo per la recita del Rosario ogni sera. Subito che sarai giunto a Valle di Pompei, lo consegnerai ad uno dei tre Missionari.
Angelo Tortora è proprio quegli che ebbe parte nelle mie fatiche dei primi anni. Era uno dei capi di tutti i coloni della Valle, e dei più ricchi. Grande nella persona, tarchiate le membra e le spalle quadrate, di voce forte e sonora, era uso di parlar sempre alto, come parlasse a sordi. Di lui mi era valso più volte per farmi accompagnare, allorché andavo attorno per la campagna in accatto di granturco e di cotone per le mie feste del Rosario e per le clamorose arriffe.
Egli montato su di un pancone in mezzo della via provinciale, rimpetto alla Parrocchia, sotto il casino De Fusco (l’antica Taverna), con la sua voce sonora, sorteggiava la famosa lotteria, e nella sua ruvida impostatura chiamava a nome tutti i vincitori delle anella e dei crocifissi e dei quadretti, che distingueva uno per uno in mezzo ad una folla stivata per la via. Era dunque colui il mio uomo, e non se lo fece dire due volte. – Sta bene, – mi rispose. – E preso il quadro, andò via.
E così, mentre l’Immagine era in cammino per la strada provinciale alla volta di Pompei sul carretto di Angelo Tortora, io correva alla stazione ferroviaria per precedere il suo arrivo. Ma qual fu il rincrescimento che provammo, quando giunti la sera a Valle di Pompei, sapemmo che il Tortora aveva portato il quadro, non altrimenti che allogandolo al di sopra del letame, di cui aveva già caricato il suo carro!
Egli volenteroso di servirmi, non aveva saputo fare altrimenti. Pure quando lo chiamai per pagarlo, il brav’uomo non volle la vettura, dicendo bastargli aver condotta una Immagine della Madonna. Poveretto! Non avrebbe mai creduto che il suo nome sarebbe apparso in questa storia, che durerà quanto il Santuario della Vergine di Pompei. Speriamo che oggi in cielo la Vergine Beata lo rimuneri di quel che operò pel suo tempio.
Or chi avrebbe creduto possibile che quella vecchia tela, pagata poco più di tre lire, e che faceva allora il suo ingresso in Pompei sopra un carro di letame, era nei disegni della Provvidenza ordinata ad istrumento di salvezza di innumerevoli anime? E che sarebbe diventata così preziosa, da essere incoronata di fulgidissimi brillanti e di rare gemme?
E poco appresso sarebbe sollevata sopra un ricchissimo trono in un tempio monumentale eretto apposta per essa? E che avrebbe chiamato ai suoi piedi non solo i poveri contadini di Pompei a recitare il Rosario, ma una folla di adoratori e di pellegrini di tutte le nazioni, divenendo ad un ora centro di religione, di civiltà, di gloria? E che avrebbe attirato l’attenzione e l’affetto del sommo Capo di tutta la Cristianità da sospingerlo a dichiarare suo il Santuario di Pompei, rendendolo Pontificio sotto l’immediata giurisdizione del Successore di Pietro?
Oh, se l’avessimo potuto vaticinar noi!… se l’avessero saputo quanti sono oggi figli prediletti della Regina di Pompei che corrono ad offrirle insieme con le suppliche l’obolo della gratitudine, da Malta, da Madrid, da Liverpool, da Coblenza, da Bruxelles, da Varsavia, da Vienna, da Blois, dalla Svizzera, dall’Africa, dall’Oceania, per nulla dire dell’Italia nostra a nessuna seconda in onorarla! Oh! se avessimo potuto indovinare quel sublime arcano! Saremmo corsi a toglierla da quel sudiciume: e recatala sulle nostre braccia, avremmo voluto portarla a questa Valle abbandonata fra una pioggia di fiori e tra gli osanna di mille voci esclamanti: – Benedetta Colei che è mandata dalla Misericordia del Signore!
BARTOLO LONGO, Storia del Santuario di Pompei, Ristampa 1990, pp. 75-83.
Pontificio Santuario della Beata Vergine del Santo Rosario di Pompei