Il Dottor Morte – è questo il nomignolo conquistato sul campo da Philip Nitschke – è stato degradato di recente a Signor Morte grazie alla sospensione nazionale d’emergenza della sua licenza medica da parte dell’affiliato dell’Australia meridionale dell’Australian Medical Board, per il quale Nitschke “ha posto un ‘serio rischio’ alla salute e alla sicurezza generali”. Il suo status potrebbe diventare permanente, in base al risultato di tre inchieste separate sulla sua specializzazione: promuovere e aiutare le persone a commettere il “suicidio razionale”.
Nel 1997 Nitschke ha abbandonato la pratica medica full-time per fondare Exit International (l’ex Fondazione per la Ricerca sull’Eutanasia Volontaria), attraverso la quale conduce attività a favore del suicidio e dell’eutanasia.
Nitschke è stato coinvolto nella morte di molte centinaia di persone in Australia, Nordamerica e Regno Unito. Perché ora è arrivata la sanzione?
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il suicidio del 45enne Nigel Brayley, un australiano di Perth sospettato di essere coinvolto nell’omicidio della moglie e in quello di un’ex fidanzata. Mentre la polizia era vicina al suo arresto e alla sua incriminazione – che gli si sarebbe costata una condanna forse ventennale –, Brayley ha partecipato a uno dei laboratori del Dottor Morte, ha chattato con Nitschke parlandogli della sua situazione e in seguito ha scambiato delle email con lui.
Ha quindi ottenuto illegalmente dalla Cina il Nembutal, un farmaco noto anche come “morte in bottiglia” usato soprattutto per praticare l’eutanasia sugli animali, e si è ucciso prima di essere arrestato.
Nitschke ha ammesso in un’intervista alla Australian Broadcasting Company TV di non aver fatto nulla per fermare questo suicidio e l’ha definito un “suicidio razionale” perché, dopo tutto, Brayley ha preferito non languire in prigione per gli omicidi dei quali stava per essere accusato.
Parlando di suicidio bisogna evitare confusioni. Esistono infatti atti ampiamente accettabili che alcuni chiamerebbero suicidio, e mi vengono in mente tre esempi, a cominciare dalla situazione in cui un soldato in una zona di guerra prende la decisione repentina di andare su una granata per salvare la vita dei suoi compagni sapendo che morirà. Penso che siamo tutti d’accordo sul fatto che si tratta di un atto di eroismo e non di un suicidio di per sé.
Chi può poi dimenticare quelle povere anime che si trovavano ai piani superiori delle Twin Towers l’11 settembre 2001 e che di fronte a una morte certa e imminente per via delle fiamme che si avvicinavano si sono gettate dalla finestra per non morire arse vive?
Un caso forse un po’ estremo è quello della spia o del soldato che viene catturato e sottoposto a tortura per fargli rivelare al nemico dei segreti che costerebbero vite innocenti. Sa che non può sopportare altre sofferenze e ingoia una capsula di veleno per evitare di mettere in pericolo la vita di altri. La considera una scelta tra una morte coraggiosa e una sopravvivenza codarda. Molti di noi sarebbero d’accordo.
Al giorno d’oggi, il problema è che i principi di autonomia e ultraliberalismo stanno sostituendo i valori di solidarietà e sacrificio, norme morali condivise e bene comune, proprio in un momento in cui le popolazioni dei Paesi industrializzati si stanno indebolendo a livello morale, arrivando a pensare che l’unico vero peccato sia soffrire, e la sofferenza include qualsiasi tipo di autonegazione.
Di fronte all’attacco nei confronti del valore di ogni insostituibile vita umana da parte di terroristi, persone che vogliono controllare la popolazione, sostenitori dell’aborto e una certa frangia di filosofi, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è l’assistenza di Philip Nitschke che spinge al “suicidio razionale”. Ciò che serve è invece più gente che pensi come John Donne:
Ogni morte d’uomo mi diminuisce,
perché io partecipo all’Umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:
Essa suona per te.
(Da “Nessun uomo è un’isola”)
Il Catechismo della Chiesa Cattolica (2280-2283) stabilisce che “siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato” (2280). Il suicidio “è gravemente contrario al giusto amore di sé. Al tempo stesso è un’offesa all’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi. Il suicidio è contrario all’amore del Dio vivente” (2281).
La Chiesa riconosce anche che “gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida” (2282), e che “non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte” (2283). Piuttosto, la Chiesa prega per loro.
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Susan Wills cura la sezione di spiritualità dell’edizione inglese di Aleteia.
Fonte: Aleteia