Quando ho letto che il 7 agosto Repubblica aveva proposto quattro domande cui Papa Francesco dovrebbe rispondere, mi sono allarmato. Considerati i precedenti di quel quotidiano in tema di domande, ho subito pensato a quesiti sulle frequentazioni notturne di qualche monsignore. La lettura dell’articolo di Eugenio Scalfari mi ha un po’ rassicurato: la «lobby gay» non c’entra. Tuttavia, più che domande, si tratta di affermazioni.
La quarta «domanda», più che al Papa, va posta ai sociologi della religione, e – avendo qualche titolo per intervenire – proverò a dire la mia. Le altre tre meritano pure un commento, perché ci dicono molto sulla psicologia di un’intera categoria, quella dei giornalisti laicisti di cui Scalfari è esimio – e, a suo modo, tipico – rappresentante.
Scalfari premette la sua professione di fede atea – è convinto che «Dio sia un’invenzione consolatoria e affascinante della mente degli uomini» – e «in questa veste» pone la prima domanda: «Se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?».
Se la domanda non è semplicemente maliziosa – cioè non mira a mettere in imbarazzo i credenti, nel qual caso si tratterebbe di banalità -, ma è sincera, apre una finestra sul dramma della modernità descritto nell’enciclica «Lumen fidei». In tesi a un ateo come Scalfari non dovrebbe importare nulla del perdono di Dio.
Ma nella vita pratica e concreta non è così. Anche l’ateo più ateo percepisce quello che l’enciclica chiama il buio della storia e – proprio mentre nega con le parole qualunque ricerca -, di fatto cerca un barlume di luce che apra alla possibilità della misericordia e del perdono. «Quello che per la Chiesa è un peccato» è comunque «qualcosa» che non lascia mai tranquillo chi lo ha commesso, perché si scontra con una legge di Dio iscritta in profondità nel cuore dell’uomo che nessun relativismo può completamente cancellare, e che genera inquietudine e domande.
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