S. Francesco d’Assisi

Francesco d’Assisi è vissuto 44 anni, dall’inverno 1181/82 fino al crepuscolo del sabato 3 ottobre 1226. Il biografo che l’ha conosciuto, Tommaso da Celano, inizia così la sua Prima Vita: “Viveva ad Assisi, nella valle spoletana, un uomo di nome Francesco”. Ne prende lo spunto anche san Bonaventura nella sua Leggenda Maggiore: “Vi fu, nella città di Assisi, un uomo di nome Francesco…”. Non c’è alcun riferimento storico perché la vita di un santo la si racconta per eventi e temi.

Viene battezzato con il nome Giovanni, ma il padre, Pietro di Bernardone, pendolare tra l’Italia e la Francia a commerciare “panni franceschi”, lo chiama Francesco.

Cresce simpatico, umano, credibile; non passa repentinamente dalle tenebre dei peccati alla luce abbagliante della perfezione, ma attraverso una vita normale di sogni e di spensieratezza, di svaghi e di impegni lavorativi, matura in se stesso i segni di una intensa esperienza cristiana.

É un giovane particolarmente allegro, ma non superficiale, generoso ad oltranza e sensibile, ma non incosciente, dotato di una certa civetteria ama essere al centro dell’attenzione, ma più per la consapevolezza delle sue doti che per eccessivo narcisismo.

Si sente avviato a grandi cose e non manca di affermarlo: so che diventerò un grande principe. E per di più c’è in Assisi un semplice il quale ogni volta che lo incontra per la strada si toglie il mantello e lo stende davanti ai suoi piedi, proclamando che avrebbe compiuto un giorno delle meraviglie.

Era il gesto ingenuo e riconoscente di un povero trattato con generosità e umanità o il messaggio di una profezia?

Le grandi cose a cui ambire a quel tempo erano le imprese dei cavalieri di cui era ricca la cultura giullaresca.

A vent’anni si cimenta in una battaglia vera appena fuori casa, a Collestrada, ma il suo esercito è fragile e improvvisato come le fantasie giovanili, ma soprattutto i suoi muscoli non sono forti come la sua sensibilità e il suo cuore, le sue mani non sanno stringere una spada come quando si poseranno sulle piaghe dei lebbrosi.

E viene fatto prigioniero per un anno intero, ma non perde il vizio di essere contento e di fantasticare.

Ritorna a casa e riprende il suo lavoro nel negozio del padre. Poi si ammala di una malattia lunga e misteriosa che debilita il corpo ma rafforza i pensieri e soprattutto lo spirito.

Il giovane allegro, esuberante incomincia a scegliere il silenzio e la solitudine, si allontana dal centro della città e va a esplorare i luoghi abbandonati della campagna di Assisi. É alla ricerca di un tesoro, ma che è ancora molto nascosto.

Ritorna alla quotidianità, ma con qualche pensiero in più, più inquietante. Poi riprova a sfondare per realizzare le grandi cose a cui si sente chiamato.

Si arruola per una spedizione nelle terre di Puglia; gli occhi del padre lo accarezzano fieri quando lo vede rivestito nella nuova armatura, gli amici delle feste lo salutano invidiosi. E finalmente riparte.

Fa poca strada, fino a Spoleto e la sua avventura si infrange contro un sogno. Sogna un castello pieno d’armi: ma tutte quelle grandi cose a chi appartengono, al padrone o al servo? Nel sogno una voce: Francesco, ritorna ad Assisi.

É la sconfitta e la resa più bruciante di quella di Collestrada perché senza le ferite della battaglia.

Gli anni passano, il giovane è ormai uomo e le ferite le ha dentro, invisibili ma profonde. Gli restano solo i sentieri solitari per sfuggire l’ironia della gente, le battute delle ragazze, lo scherno degli amici.

Un giorno si sente attratto dai ruderi di una chiesetta e lì scorge un crocifisso impolverato e abbandonato, ma che lo aspettava pazientemente. “Francesco, va e ripara la mia chiesa”.

E così quelle mani delicate e scarne, incapaci di stringere con forza l’elsa di una spada, si sporcano, si graffiano, si ornano di calli.

Ma Dio non ha bisogno di muratori perché la sua casa è fatta di anime o meglio di persone.

I poveri e i lebbrosi diventano la sua compagnia preferita, a loro riserva tutte le attenzioni e i soldi della bottega del padre.

Pietro di Bernardone che aveva puntato tutto su quel figlio, aveva chiuso un occhio su tutte le sue stravaganze, ma adesso la sua pazienza aveva colmato la misura e incominciava a montare una rabbia furiosa, incontrollabile.

Era necessaria un’azione di forza per farlo tornare in sé, davanti a tutti, anche per non perdere la faccia.

E Francesco, spogliandosi, reagisce con il gesto più radicale e più liberatorio che potesse fare iniziando una nuova vita e assumendo una nuova identità: “D’ora in poi potrò dire liberamente: Padre nostro che sei nei cieli, non padre Pietro di Bernardone”.

Dopo un breve periodo di vita solitaria si raccolgono intorno a lui i primi seguaci, Egidio e Silvestro d’Assisi, Bernardo da Quintavalle, Pietro Cattani e Angelo Tancredi.

Quando la prima fraternitas ha ormai preso forma intorno al Tugurio di Rivotorto, Francesco elabora una formula vitae che non ci è giunta e, insieme agli undici compagni, si reca a Roma per sottoporla al pontefice.

Innocenzo III, persuaso da un sogno in cui vide il Laterano pericolante sorretto da un giovane frate, si limita a concedere un’approvazione orale, incaricando Francesco di “predicare a tutti la penitenza”.

Nel 1212 la “fraternità”, notevolmente accresciuta, si stabilisce alla Porziuncola, poco lontano da Assisi.

L’esempio di Francesco è seguito anche da Chiara, una giovane assisiate che, ricevuto l’abito, dà vita alla comunità delle Povere dame di san Damiano, il futuro Ordine Minore delle Clarisse.

Spinto dal desiderio di testimoniare la fede al mondo intero, Francesco aveva tentato più volte di recarsi nei paesi non cristiani: fermato da un naufragio nel 1211 al largo della Dalmazia e da una malattia in Spagna nel 1214, raggiunge l’Egitto nel 1219, dove ottiene dal sultano Malek-el-Kamel l’autorizzazione a predicare, aprendo la via alle grandi missioni cattoliche.

Rientrato ad Assisi, sofferente nel fisico e amareggiato per i contrasti tra i frati durante la sua assenza, nel 1220 Francesco rinuncia alla carica di ministro generale della comunità in favore del fedele compagno Pietro Cattani.

Il 29 novembre 1223 Onorio III approva con la bolla Solet annuere la regola francescana, sancendo la nascita ufficiale dell’Ordine dei Frati Minori.

Assistito da tre compagni, Angelo, Leone e Rufino, ormai quasi cieco, nel 1224 Francesco si ritira nell’eremo della Verna, il dantesco “crudo sasso intra Tevero e Arno”, dove riceve le stimmate.

Muore il 3 ottobre del 1226 alla Porziuncola e viene canonizzato da Gregorio IX il 16 luglio 1228.

La spoliazione davanti al padre e al vescovo nella piazza di Assisi, aveva portato finalmente Francesco a scoprire la sua identità di figlio di Dio e la sua configurazione a Cristo.

“Oh, come è glorioso, santo e grande avere in cielo un Padre”. Coloro che compiono le opere del Padre “sono sposi, fratelli e madri del Signore nostro Gesù Cristo. Siamo sposi quando l’anima fedele si unisce al Signore nostro Gesù Cristo per virtù dello Spirito Santo. Siamo suoi fratelli quando facciamo la volontà del Padre che è nei cieli. Siamo madri quando lo portiamo nel cuore e nel corpo per mezzo del divino amore e della pura coscienza e lo generiamo attraverso le opere sante” (Lettera a tutti i fedeli).

Diventare come Gesù. Fu questo il senso della sua vita espresso nella Regola per i frati: “Questa è la vita del vangelo di Gesù Cristo, che frate Francesco chiese che dal signor Papa Innocenzo gli fosse concessa e confermata” (Regola non bollata).

La sua conformazione/imitazione di Cristo cercata per tutta la vita l’ebbe perfino impressa nella sua carne con i segni delle stimmate.

Scrisse frate Elia dopo la morte di Francesco: “Ed ora vi annuncio una grande gioia, uno straordinario miracolo: non si è udito un portento simile, se non nel Figlio di Dio, Cristo Signore. Qualche tempo prima della sua morte il nostro Padre (Francesco) apparve crocifisso, portando impresse nel suo corpo le cinque piaghe, come sono veramente le stimmate di Cristo”.

E testimonia frate Leone: “Quando si stava lavando il suo corpo per la sepoltura, sembrava veramente come un crocifisso deposto dalla croce”.

Un altro modo per vivere il rapporto con Dio e realizzarlo in Cristo è fare corpo con l’umanità di Gesù stesso, entrare in lui, unirsi intimamente a lui. E questo è possibile ‘realmente’ attraverso il sacramento dell’Eucaristia.

Un sacramento che Francesco ha vissuto con tale intensità da vibrare e ardere “di amore in tutte le fibre del suo essere, preso da stupore oltre ogni misura per tanta benevola degnazione e generosissima carità. Si comunicava con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri” (Tommaso da Celano, Vita Prima).

 

Fonte: sito ufficiale della Basilica Papale di S. Francesco in Assisi