Il problema delle quote rosa riguarda solo poche donne privilegiate. Così le femministe si sono ritrovate a difendere delle elites, e d’altra parte non sono le sole ad aver fatto questa capriola. Molte delle battaglie della sinistra, che, detto in parole grossolane, aveva cominciato almeno nelle intenzioni col difendere i diritti degli ultimi, sono diventate quelle di una piccola fetta della popolazione, completamente scollata dal resto.
Mi chiedo come sia potuto succedere.
Per esempio: sono circondata da amici e conoscenti che hanno perso il lavoro, o che lavorano senza prospettive e sottopagati. Per nessuno di loro le nozze omosessuali sono tra le priorità più urgenti.
Anche quelli che sono d’accordo le metterebbero al massimo al numero seicentotredici della lista delle cose da fare. Non lascerebbero che invadessero agende della politica e dell’informazione.
Il fatto è che per la politica risolvere i problemi di lavoro dei miei amici (chissà, magari fra un po’ anche i miei) sarebbe molto complicato, mentre fare una legge a favore delle famiglie arcobaleno non costa nulla, e pare rendere in termini di immagine.
Le lobby omosessualiste infatti stanno nei posti che contano, e quelli che non sono d’accordo evitano la grana di parlare, perché l’accusa di omofobia è dietro l’angolo.
D’altra parte, come disse il capo di gabinetto di Obama, Rahm Emanuel, i gay sono i nuovi ebrei del fundraising (nda -nota dell’admin – i ricchi ebrei sono tradizionalmente tra i maggiori finanziatori delle raccolte fondi delle lobbies negli USA a favore di candidati e partiti, attività peraltro pienamente legale e regolamentata).
Comunque, lo stesso è successo con le battaglie a favore delle donne. Chiedevano il diritto al voto, allo studio, alla libertà. Cose sacrosante.
A ben vedere le donne non chiedevano altro che rispetto, o forse, in fondo, quello che desidera ogni donna (e, in modo diverso, ogni uomo), cioè di essere guardate con amore. Una battaglia meravigliosa.
Hanno finito col combattere per il diritto di uccidere i loro figli, di divorziare, di essere costrette a lavorare lasciando i propri figli nelle mani di altri.
Perché sono certa che ci siano manager bravissime che non sono riuscite a entrare nei consigli di amministrazione solo perché donne, docenti universitarie a cui la cattedra è stata soffiata da qualche barone, non ne dubito, ma io personalmente conosco solo donne che avrebbero preferito almeno rimanere a casa più a lungo dopo la nascita dei figli, o che vorrebbero che il loro lavoro venisse misurato sul risultato, e non sull’orario, o che si interrogano sul modo di far quadrare tutto, e di capire se il lavoro è davvero così fondamentale nella loro vita.
Molte volte, quando diventano mamme, si rendono conto che ne farebbero a meno volentieri, almeno per un bel periodo.
E stiamo ancora parlando di donne privilegiate, perché le bariste, le commesse, le operaie, le impiegate, questo discorso non possono neanche sognarlo. Devono timbrare il cartellino, e fanno i salti mortali, e non è che lavorino per realizzare se stesse, e spesso si chiedono perché oggi si prendano due lavoratori al prezzo di uno, se un tempo le famiglie monoreddito potevano garantirsi una vita dignitosa, mentre oggi hanno una vita nella maggior parte dei casi impossibile.
Lo ha scritto anche Ann Marie Slaughter, professoressa di Princeton e consigliera nel Dipartimento di Stato, quindi non una donnetta di parrocchia come me, nel suo articolo Why women still can’t have it all, che ha fatto il giro del mondo, è rimbalzato da sito a sito, ed è diventato un libro: la Slaughter ha lasciato il suo super gratificante e retribuito lavoro per seguire i due figli adolescenti, per la semplice osservazione che non è possibile fare bene tutte e due le cose, la mamma e la professionista ai massimi livelli.
Sono ignorante con metodo, lo sono in quasi tutte le materie, ma eccello sicuramente in storia del femminismo. Quanto a ignoranza dico.
Mi è stato fatto notare anche l’altro giorno al convegno Donne e lavoro, organizzato da I mille (che – per far capire l’orientamento – vedono nel comitato editoriale Ivan Scalfarotto). Una relatrice voleva sapere su cosa basassi le mie osservazioni, mi ha chiesto di citare i testi del femminismo.
No, non ho studiato i loro sacri testi, ma ho un punto di osservazione non ideologico, e abbastanza ampio sulla realtà.
Non ideologico perché io mi sono preparata per lavorare, ho fatto tutto – università, master – meglio che ho potuto per la mia “carriera”, salvo poi, all’arrivo dei figli, capire che non ero disposta a sacrificarli.
Un punto di vista, poi, ampio, per le donne che conosco, colleghe, amiche, mamme di amici o compagni di scuola, catechismo, sport, tutto moltiplicato per quattro figli. Inoltre ho ricevuto ormai migliaia di lettere e messaggi da lettrici dei miei libri, e il fatto di averne vendute sessantamila copie mi fa pensare che quello che scrivo sia abbastanza condiviso, almeno non solo da me e dal mio amico immaginario.
Le donne di questo campione non si sentono rappresentate dalle “Se non ora quando”, non credono che la soluzione ai loro problemi sia il bonus bebè per mettere i figli al nido, né gli asili aziendali, né l’allungamento dell’orario scolastico.
Perché il vero problema, quello che impedirà alle quote rosa di funzionare bene, quello che toglierà le donne migliori dal mondo del lavoro, non è il problema femminile, ma il problema della maternità.
Le donne il più delle volte non vengono discriminate in quanto femmine: per esempio nel mio mondo del lavoro, il giornalismo, sono ormai la maggioranza a occhio e croce.
Quello che discrimina è la difficoltà oggettiva di tenere insieme tutto, e fino a che il mondo del lavoro non diventerà a misura di figli (congedi pagati, flessibilità, telelavoro, part time obbligatorio a richiesta) le donne si tireranno indietro da sole – almeno per un periodo – quando diventeranno madri, semplicemente perché women can’t have it all.
Perché non si riesce a fare tutto bene, perché non è lo scatto di carriera che ci fa battere il cuore.
Fonte: il blog di Costanza Miriano