Della famosa frase, che incolpa sempre il governo in carica di ogni e qualsiasi male della società, l’enciclopedia Wikipedia propone diverse origini, tutte, o quasi, plausibili. Ma non è sulle origini di questo comunissimo detto che voglio soffermarmi, bensì sul fatto che ancora oggi in Italia viene utilizzato per motivare ogni accidente che ci riguardi.
Ne ho preso inaspettatamente atto stamani nel recarmi a compiere degli acquisti. Entro in un ampio negozio di articoli etnici per cercare un dono che mi è stato commissionato. Mi guardo intorno per cercare una commessa che mi dia indicazioni sui prezzi di alcuni oggetti che mi interessano, ma apparentemente non c’è nessuno.
Finalmente intravedo seduta, confusa fra la mobilia e gli articoli esposti, una figura immobile, tetramente e interamente agghindata di colore nero, dagli abiti ai capelli al trucco, che risalta su un volto pallido. Sarà sulla cinquantina e, con espressione catatonica, senza muoversi dallo scranno su cui è seduta, comincia a rispondermi a monosillabi.
Mi avvicino a lei e, guardandola di sottecchi intanto che visiono gli oggetti in una vetrinetta lì accanto, mi esce di chiederle: “E’ depressa?” – “No no” – risponde frettolosa – “Come potrei? Sono qui per servirvi”. Non me la conta giusta, ma finalmente si muove e mi mostra alcune collane: “Sono in stile anni sessanta. Ricorda?” – mi domanda in considerazione della mia età.
Finalmente sembra sbloccarsi abbozzando anche un sorriso, ma lo sguardo rimane lugubre come il suo aspetto. Fingendo indifferenza, le rispondo con vivacità: “Certo che lo ricordo, ero un’adolescente. Ma non eravamo proprio come hanno raccontato certi film, ad esempio noi ragazzi non dicevamo le parolacce e non saltavamo da un letto all’altro, ma ci fidanzavamo e ci sposavano ancora giovani”
Il ghiaccio è ormai rotto, entra qualche altra cliente ma lei, come rianimata, va avanti a parlarmi: “Lei prima mi ha domandato se fossi depressa, per la verità lo sono per la storia di quel bambino di cui ha parlato stamani il telegiornale”. Poiché non so di quale storia si tratti, mi racconta che un papà, l’ennesimo, invece di portare il suo piccolissimo bimbo al nido lo ha dimenticato in auto e se ne è andato al lavoro. Il bimbo è stato ritrovato ore dopo, ormai morto.
La signora si infervora, si commuove senza lacrime pensando a quel povero bimbo e all’ancor più misero padre, per cui io, emotivamente coinvolta da tale tragedia, non la interrompo e lascio che mi racconti quelle che sono le sue motivazioni socio-psicologiche dell’accaduto.
“Non vede che governo abbiamo?” – mi domanda accalorata – “Ci sta riducendo alla pazzia! Siamo tutti stressati, abbiamo problemi da tutte le parti e la testa delle persone va in tilt”.
Continuo a restare zitta ascoltando lo sfogo e nel frattempo una cliente, trentenne e bene educata, interviene nel discorso: “Scusate se mi intrometto, ma la penso allo stesso modo” – e rivolgendosi a me, quasi fossi una rappresentante del Governo, aggiunge con veemenza: “Ma lo sa lei cosa vuol dire non sapere cosa dar da mangiare ai propri figli? Anche io, cosa crede, non sono più la stessa, pensi che dimentico la porta di casa aperta, tanto questa situazione mi fa andare fuori di testa”.
Nel frattempo è entrata qualche altra signora che ascolta girellando qua e là senza interloquire, ma noi tre siamo talmente prese da questo argomento che non badiamo molto a quello che accade intorno.
Timidamente faccio presente che se quel papà è andato al lavoro vuol dire che un lavoro ce l’ha e in effetti ho poi letto sul Corriere della sera che è un dirigente della società presso cui è impiegato.
Ma alle due signore questa obiezione non è sufficiente, la colpa è del governo del Paese che ci tira tutti pazzi. “Prima parlavamo degli anni sessanta” – mi ricorda la commessa – “Allora queste cose non succedevano, allora andava tutto bene. Oggi siamo in guerra, oggi c’è la guerra civile.”
Guardo l’ora, ho una quantità di commissioni da fare prima che chiudano i negozi e giudico arrivato il momento di dare una risposta: “Scusate se quello che sto per dire non vi piacerà” – inizio guardando negli occhi, accesi dallo sdegno, delle due signore – “Ma vorrei ricordarvi che negli anni sessanta si era appena usciti da una terribile guerra e si era scansato per un pelo una vera rivoluzione civile. La gente poteva essere disperata, come e più di adesso, piangendo i propri morti e i disastri bellici.
Ma sapete qual è la differenza fra allora e ora? E’ che tutti andavano a Messa e la domenica le chiese, soprattutto alla funzione di mezzogiorno, erano stracolme al punto che per sedersi bisognava arrivare almeno cinque minuti prima. Addirittura nella mia Parrocchia venivano aperte le porte d’ingresso e i ritardatari seguivano la celebrazione dal sagrato. I problemi poi si risolvevano pregando, facendo novene e voti alla Madonna, non certo andando dai maghi e dai cartomanti come adesso.”
Le due donne sono ammutolite, penso di aver fatto centro e che siano delle habitués dell’esoterico. Una delle due mi risponde senza molta convinzione: “Ma Dio è un fatto personale, lo dobbiamo avere nel cuore…”
Era l’ultima cosa che doveva dirmi e a questo punto forse alzo la voce rispondendo: “Senta, quello che ognuno si costruisce dentro è un Dio inventato da se stessi, un Dio che corrisponde ai nostri desideri e che deve fare la nostra volontà. Il Dio vero è quello dei Dieci Comandamenti, quello che troviamo nella S. Messa, quello che aspetta le nostre preghiere e il nostro amore.
Ci siamo allontanati da Lui e ci siamo snaturati. Ci siamo messi ad andare dai maghi e a consultare i tarocchi, vogliamo costruire il mondo con le nostre forze e stiamo impazzendo. Cosa credete? Il messaggio di Medjugorje questo è, un invito a convertirsi.”
Nessuna delle due ribatte nulla, la cliente che gironzolava per il negozio esce salutando con un filo di voce, una ragazza di colore si gira verso di me sorridendo. Prendo il pacchetto che ho appena pagato e, per sdrammatizzare, prima di uscire le saluto aggiungendo con un mezzo sorriso: “Beh, con questa catechesi sono a posto fino al prossimo mese.” Non so se abbiano compreso che non sono i governi a farci impazzire, ma il credere che da loro provenga la nostra salvezza.
Ester Consalvi