ROMA, 16 Ottobre 2013 (Zenit.org) – Il perdono secondo la psicologia scientifica. È questo il tema del libro Teoria e clinica del perdono, recentemente uscito per Raffaello Cortina Editore. ZENIT ha intervistato Barbara Barcaccia, curatrice del volume insieme a Francesco Mancini, neuropsichiatra infantile.
Barbara Barcaccia è psicologa, filosofa e psicoterapeuta. È didatta dell’Associazione di Psicologia Cognitiva APC-SPC ed è docente di Tecniche del Colloquio Psicologico presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli studi dell’Aquila e di Psicoterapia Cognitiva presso la scuola di specializzazione in Neuropsicologia, Facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma.
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Cos’è il perdono?
Barcaccia: Il perdono è una delle possibili reazioni a un torto subito, così come la vendetta oppure il distacco, la fuga. È un dono: significa rinunciare all’odio, alla rabbia, al risentimento, al distacco emotivo, pur avendo “diritto”, in un certo senso, a provare queste emozioni, in seguito a un’offesa subita. È un dono perché è qualcosa che viene offerto “immeritatamente” all’offensore. È un processo che prende le mosse dalla decisione di perdonare, e che, attraverso una serie di fasi, porterà a liberarsi dei sentimenti negativi verso chi ci ha perpetrato un torto e a costruirne di positivi, come la benevolenza e la compassione. Si tratta di un percorso, spesso difficile e costellato di difficoltà, che non può essere compiuto in un istante; comporta una serie di alti e bassi lungo il processo, che potremmo definire un cammino verso la libertà: perdonare è come liberare un prigioniero, per poi scoprire che quel prigioniero eri tu. Ecco, a me colpisce particolarmente questa dimensione della libertà ritrovata, un aspetto sottolineato, tra gli altri, dalla filosofa Hannah Arendt. Pur considerando alcuni atti moralmente imperdonabili, la Arendt considera tuttavia il perdono come la condizione ineludibile per la libertà dell’Uomo:
…il peccare è un evento quotidiano, nella natura stessa dell’azione che stabilisce continuamente nuove relazioni in un tessuto di relazioni esistenti, ed è necessario che sia perdonato, messo da parte, per consentire alla vita di proseguire prosciogliendo gli uomini da ciò che hanno fatto… Solo attraverso questa costante mutua liberazione da ciò che fanno, gli uomini possono rimanere agenti liberi.
Perchè perdonare?
Barcaccia: Le ricerche scientifiche sugli effetti del perdono dimostrano che perdonare arreca diversi benefici al benessere psico-fisico: contribuisce ad abbassare la pressione arteriosa, migliora la qualità del sonno, diminuisce il rischio di abuso di alcool o di sostanze, consente di avere relazioni interpersonali più soddisfacenti, diminuisce il rischio di sintomatologia ansiosa e depressiva. Per sintetizzare tutti i dati delle ricerche ad oggi disponibili, si potrebbe dire che perdonare migliora la qualità della vita.
La vendetta invece, che è una delle altre possibili reazioni a un torto subito, e che viene spesso messa in atto anche nella speranza che possa portare a una “chiusura positiva”, a un ristabilirsi della giustizia, in ultima analisi a un maggior benessere per la vittima, in realtà porta a un prolungamento delle emozioni negative: ci si vendica nell’illusione di mettere un punto alla propria sofferenza, ma ci si ritrova proprio nella condizione opposta. Per dirla con le parole della Jane Eyre di Charlotte Brontë “Per la prima volta avevo gustato un poco il sapore della vendetta; nell’inghiottirla mi era sembrata calda e generosa come un vino aromatico: ma il retrogusto, metallico e corrosivo, mi dava ora l’impressione di essere stata avvelenata”.
È sempre possibile perdonare?
Barcaccia: Se affrontiamo la questione da un punto di vista psicologico, non esistono offese impossibili da perdonare. Emblematico, a questo proposito, e considerato scandaloso, o per lo meno sconvolgente da molti, è il caso di Carlo Castagna, che ha deciso di perdonare gli assassini della moglie, della figlia e del nipotino: “Ho ritenuto che non dovessi vivere odiandoli, sarebbe stato per me una tragedia. Io vivrei di angoscia se passassi le mie ore nel livore, macerato dall’odio. Il perdono invece rende liberi” . La sua decisione ha suscitato enormi controversie, alcuni hanno giudicato questo gesto un atto di ingiustizia, adducendo ragioni di carattere etico. Potremmo quindi affermare che perdonare è sempre possibile, perché non esistono offese, ingiustizie, torti psicologicamente imperdonabili, ma ve ne sono alcuni che le persone possono ritenere imperdonabili da un punto di vista morale. Del resto, come afferma un grande studioso di perdono, Robert Enright, perdonare è una scelta.
La frase “Perdono, ma non dimentico” ha senso, oppure è una contraddizione?
Barcaccia: Gli studi sul perdono ci suggeriscono che l’atto del perdonare non equivale a dimenticare ciò che è accaduto. Anzi, per poter dare l’avvio al processo del perdono è necessario ricordare l’offesa, solo che è il modo in cui si ricorda a doversi trasformare: ricordo l’offesa, ma non ne sono sopraffatto, non ci rimugino continuamente. Ricordo l’offesa, ma, oltre alla sofferenza e agli elementi negativi, riesco a ravvisare un qualche senso, una qualche conseguenza positiva in quella dolorosa vicenda. Quindi, ricordare la trasgressione e considerarne le implicazioni è un passo preliminare fondamentale verso il perdono, ma bisogna stare attenti al “ricordare patologico”: le ruminazioni sono particolarmente controproducenti, portano a incrementi delle emozioni negative relative alla trasgressione. In che consiste la “ruminazione”? Si tratta di una iper-focalizzazione sui propri sintomi di sofferenza, in cui si pensa e si ripensa continuamente a cosa è accaduto, perché l’altro ha fatto ciò che ha fatto, ha detto ciò che ha detto, perché noi non abbiamo reagito in un certo modo, etc. Insomma, è come se ci si focalizzasse in modo passivo e ripetitivo sulle caratteristiche negative e dannose di un evento, senza che questo porti mai a una risoluzione di alcun tipo, ma a un mantenimento o incremento delle emozioni negative. Le ricerche dimostrano, a questo proposito, che le ruminazioni su eventi di vita negativi, come i torti subiti, sono incredibilmente controproducenti per benessere e funzionamento interpersonale. Infatti, ruminare sulle cause della propria rabbia prolunga la rabbia, così come ruminare su un’offesa ricevuta aumenta la probabilità di vendicarsi e di dare l’avvio a cicli di offese e vendette senza fine. Lily Tomlin, una comica americana, ha scritto un incredibile aforisma a questo proposito: perdonare significa abbandonare ogni speranza in un passato migliore… Dunque, perdonare non equivale a dimenticare. Tuttavia, quando qualcuno afferma “Perdono, ma non dimentico”, di solito intende dire che non ha perdonato affatto!
Ha parlato del perdono come di un processo in più fasi. Quali sono queste fasi?
Barcaccia: Sono stati proposti diversi modelli di questo processo. Senza costituire una rigida progressione di stadi, si può immaginare il percorso dall’odio e dalla rabbia al perdono come una serie di tappe che rappresentano alcuni cambiamenti affettivi, cognitivi e comportamentali che avvengono invariabilmente in coloro che scelgono di perdonare e che poi vi riescono. All’inizio si sperimentano forti emozioni di rabbia, risentimento, odio, talvolta un desiderio di vendetta. Queste sensazioni, sentimenti, affetti, pensieri, sono quasi fisiologici e non vanno negati, ma riconosciuti e accolti come reazioni emotive normali. Di solito in questa prima fase sono molto frequenti le ruminazioni, di cui abbiamo parlato precedentemente. Rimuginiamo sul danno subito, sull’offesa, su quanto quell’evento ci abbia danneggiato, cambiato visione del mondo, etc. Successivamente si comincia a realizzare quanto l’odio e le ruminazioni continue non servano a modificare l’accaduto ma, piuttosto, ci facciano soffrire sempre di più e ci privino delle energie necessarie a pensare e promuovere un cambiamento in positivo. È solo a questo punto che di solito si compie una scelta: si decide di perdonare, perché si intravedono le potenzialità di un atto che, pur non cancellando l’ingiustizia, può riportare la serenità nella propria vita. Si decide di accettare quel dolore, e di provare a trasformarlo. Dopo aver preso questa decisione, è necessario impegnarsi attivamente per arrivare al cuore del perdono, fondato sull’assunzione di una prospettiva “umile”. Per dirla con Voltaire “Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdonarci reciprocamente le nostre balordaggini è la prima legge di natura”… Un po’ alla volta, la vittima può cominciare a comprendere qualcosa di più della prospettiva, delle ragioni e delle debolezze dell’offensore. Non sempre questo è possibile, ma si può comunque aumentare il livello di compassione nei confronti di quell’essere umano che ha sbagliato, ci ha fatto del male, ci ha ferito. Questo processo denso di complessità e difficoltà dovrebbe produrre come esito una nuova attribuzione di significato a ciò che è accaduto, in nuove emozioni e sentimenti verso l’offensore, così come in pensieri e comportamenti rinnovati dal cammino intrapreso. Un percorso verso la riconquista della libertà e della serenità.
Di Laura Guadalupi
Fonte: Zenit