Era una statua antica, un tronco mutilo che si pensò raffigurasse Menelao in atto di soccorrere Patroclo (una delle tante ipotesi). Fu trovata negli scavi per il rifacimento di Palazzo Orsini a Roma, nel centralissimo rione Parione. Gli studenti del vicino ginnasio ogni anno si esibivano in una pubblica “accademia”, come usava allora, e presero l’abitudine di appendere versi aulici al basamento della statua. La quale, data la sua posizione, ben si prestava a essere vista da tutta la città.
Non si sa perché da un certo punto in poi alla statua sia stato attribuito il nome di “Pasquino”, forse dal nome di un sarto che, in quei paraggi, teneva bottega e concionava sul governo coi suoi garzoni (anche questa, una delle tante ipotesi).
Le vere e proprie “pasquinate”, intese come ferocissima satira contro i papi e i cardinali, apparvero nel 1501, sotto il pontificato di Alessandro VI Borgia, sul quale era facile appuntare gli strali.
Un autore molto prolifico di pasquinate fu Pietro Aretino, che cercava di tirare la volata in conclave al suo padrone Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. Ma venne eletto Giulio II e l’Aretino dovette fuggire da Roma. Tornò quando fu finalmente eletto il suo datore di lavoro col nome di Leone X, salvo scappare di nuovo alla morte di quest’ultimo.
Intanto, delle pasquinate si erano appropriati i protestanti, i quali ne traevano ulteriori spunti di astio antipapista. Ma per lo più, le pasquinate erano dirette contro il nepotismo, cioè le prebende che ricadevano sui parenti di ogni nuovo Papa.
Oggi, per noi moderni, il nepotismo è pratica esecrabile; ma per tutto il Medioevo, e anche dopo, la sensibilità fu diversa. Innanzitutto, la famiglia aveva un valore che superava l’individuo: uno che, avendo fatto fortuna, non condivideva coi suoi familiari era considerato un ingrato e un membro degenere di quella famiglia. In secondo luogo, l’elezione di un pontefice era in quei secoli un fatto di politica internazionale: ogni “nazione” doveva avere la sua quota di cardinali, di modo che il conclave potesse essere quanto possibile imparziale.
Per esempio, al tempo della cosiddetta Cattività di Avignone la curia pontificia era praticamente ostaggio del re di Francia, il quale imponeva papi francesi e una percentuale spropositata di cardinali francesi. E un pontificato “francese” non aveva alcun prestigio in campo internazionale.
Né le cose andavano meglio quando il pontificato veniva disputato tra le grandi casate aristocratiche romane. Insomma, un Papa era di fatto costretto, per contare su qualcuno di cui potersi fidare, a circondarsi di suoi parenti. Naturalmente, chi rimaneva escluso dalla torta remava contro.
La riscoperta umanistica dell’antico genere letterario della satira fece il resto. Ma quanto fosse ingannevole cercare di desumere gli umori popolari dalle pasquinate appese alla statua lo si vide con chiarezza all’ora dell’elezione di Innocenzo XII nel 1691. Fu questo il primo Papa ad abbandonare apertamente la pratica del nepotismo, pur appartenendo personalmente al nobile casato napoletano dei Pignatelli.
I tempi erano ormai cambiati e il giansenismo stava creando problemi interni alla Chiesa. L’era delle “quote nazionali” era finita e anche le grandi famiglie romane avevano smesso da un pezzo di interessarsi del papato. Così, pure Pasquino cambiò direzione e si mise a rimpiangere ciò che per secoli aveva rimproverato. Con versi come questi: «Qual frutto averà mai la Santa Sede / d’aver dato ai nepoti l’ostracismo, / se regna invece lor chi non ha fede? / Quant’era meglio avere il nepotismo, / splendor di Roma e base di governo, / che nutrir coi favori il giansenismo!».
Quando, dopo lo scoppio della Rivoluzione Francese, l’inviato della Convenzione, Hugou de Bassville, osò attraversare Roma su una carrozza vistosamente addobbata con le coccarde rivoluzionarie, il popolo romano esplose in sommossa e il diplomatico finì linciato. L’indomani comparve questa pasquinata: «Er ben vienuto avemo dato a questo; / poi venga tutta Francia a fa’ la morra, / ché la stamo aspetta’ pe’ daje er resto! / Ma che davvero, razza jacobina, /ce tenete pe’ vili e pe’ buffoni? (…) ’st’uguaglinanza che sempre voi ce dite, / ’sta libbertà che a tutti predicate, / qua nun ce piace un corno, lo capite?».
E, all’ora delle Insorgenze, quest’altra: «O Santo Padre, dateci licenza / d’ammazzar tutti quanti li Francesi. / E se poi ce mettete l’indulgenza, / andremo sino nelli lor paesi».
Quando Pio VI venne deportato e morì in prigionia a Valence nel 1799, la pasquinata fu addirittura dolente: «Per conservar la fede / un Pio perdé la sede».
Nel libretto di Cristina Giovannini, Pasquino e le statue parlanti (Tascabili Economici Newton, 1997), sono riportate molte pasquinate del tempo napoleonico, tra cui il famoso dialogo tra le statue di Pasquino e quella di Marforio, che ogni tanto venivano trovate a duettare: «Marforio: È vero che i francesi sono tutti ladri? Pasquino: Tutti no, ma BonaParte!».
Marforio era un’altra statua che era stata eletta controparte di Pasquino. Si trovava in Campidoglio e raffigurava un vecchio seminudo sdraiato mollemente. Venne chiamato Marforio forse per la vicinanza col Foro di Marte (Mars Forum, e pure qui le ipotesi sono tante).
Napoleone portò via da Roma tutti i tesori d’arte e perfino l’intero archivio vaticano. Pasquino: «Per fortuna che ci chiamano fratelli, / ce cavavan, si no, pur li budelli!».
Non mancò Pasquino di commentare da par suo la disastrosa spedizione di Russia: «A Mosca andò per divenir sovrano; / tornò da Mosca con le mosche in mano». Napoleone deportò Pio VII per farsi incoronare imperatore a Parigi; quando, dopo la caduta del Bonaparte, il Papa poté rientrare a Roma, i collaborazionisti temettero rappresaglie e se ne fece interprete Pasquino: «Ma, Santo Padre, in cosa abbiam peccato? / Voi l’avete unto e noi l’abbiam leccato».
Leone XII cercò di moralizzare le ubriachezze e ampliò benevolmente i confini del ghetto ebraico, ma Pasquino se la prese inalberando questo stornello: «Fior di mughetto / papa Leone è diventato matto: / ha chiuso l’osterie e allarga il ghetto».
L’elezione di Pio IX suscitò gli entusiasmi dei cospiratori liberali ma Pasquino tolse loro ogni illusione: «Contraddizione in termini, cui non si dà l’uguale / essere papa a un tempo ed esser liberale ».
Qualche giorno prima della Breccia di Porta Pia, nel 1870, comparve l’ultima pasquinata: «Santo Padre benedetto, / ci sarebbe un poveretto / che vorrebbe darvi in dono / questo ombrello. È poco buono, / ma non ho nulla di meglio. / Mi direte: a che vale? / tuona il nembo, Santo Veglio; / e se cade il temporale?» (cioè, il potere temporale).
È significativo che Pasquino abbia taciuto per sempre da quel momento. Anche Marforio. Eh, con i plumbei piemontesi c’era poco da scherzare e, a differenza dei papi, non avevano il senso dell’humour. Solo quello del carcere.
IL TIMONE n. 111 – Anno XIV – Marzo 2012 – pag. 20 – 21