La Santa Chiesa fondata da Gesù Cristo è una società visibile e “gerarchicamente ordinata” (LG 20). Tale costituzione centralistica ebbe in origine il suo vertice nella persona di Pietro, al quale il Signore aveva dato il supremo potere di governo.
Dopo la morte dell’Apostolo, la perpetuità della sua carica fu assicurata man mano da un altro “Pietro vivente”, ossia dai Vescovi di Roma suoi successori. In tal modo la Chiesa è governata in ogni istante mediante un potere di trasmissione che parte da Pietro e si perpetua nei secoli.
Il punto di partenza della storia pontificia è stato un principio, sviluppatosi poi gradatamente nel corso del tempo, che è quello dell’esistenza di un potere speciale, ossia il “vicariato”, che sta alla base delle funzioni papali, le illumina e le giustifica.
Con ciò si vuol intendere che i Romani Pontefici esistono, comandano e governano in quanto stanno in rappresentanza di Cristo e lo continuano visibilmente nella storia. V’è dunque un Capo della Chiesa che è sempre infallibile, ed è il solo Capo della Chiesa poiché tutti gli altri, anche il suo Vicario, non hanno autorità se non da Lui.
“Se il Papa è il vicario visibile di Gesù, che è salito ai cieli invisibili – scrive il padre Calmel (1914-1974), insigne teologo domenicano –, egli è soltanto il vicario: vice regens, tiene il posto di Gesù Cristo, ma resta altro da Lui. Non è dal Papa che discende la grazia che fa vivere il Corpo mistico. La grazia, per lui Papa, come per noi, promana unicamente dal Signore Gesù Cristo”.
La pietra su cui è fondata la Chiesa è Cristo, come testimonia lo stesso Pietro negli Atti: “Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo” (4,11). E Pietro assume questo nome non perché egli fondi la Chiesa ma perché rappresenta “la pietra”, Cristo, scartata dagli orgogliosi costruttori della città terrena.
La modernità ha censurato ciò che il Signore stesso ha detto di Sé in quanto “pietra”: “Chi cadrà sopra questa pietra si sfracellerà; e colui sul quale essa cadrà, verrà stritolato” (Mt 21,44). Ma è questa “pietra di scandalo” il fondamento della Chiesa di Dio e dunque anche del ministero petrino il quale – per volere di Cristo – si radica anzitutto nell’amore al divin Maestro.
Con parole scultoree ed immortali sant’Ambrogio di Milano spiega che, prima di salire al cielo, Cristo – con la triplice domanda rivolta a Pietro “Mi ami tu più di costoro?” (Gv 21,15-19) – lasciava Pietro come “vicario del suo amore”. Al Vicario di Cristo è dunque richiesto un amore più grande: “Mi ami tu più di costoro?”. È questo il primo requisito che il Signore chiede al suo Vicario in terra. Egli deve anzitutto amare la Pietra, Gesù Cristo, sulla quale si fonda l’intero edificio ecclesiale, che è il di Lui Corpo, la Chiesa.
Il Corpo mistico di Cristo è la Chiesa. Il Papa ne è un membro eccellente, ma pur sempre un membro. La Chiesa non è il corpo mistico del Papa. “Noi viviamo per mezzo di Gesù Cristo e per Gesù Cristo – scrive ancora il padre Calmel –, grazie alla sua Chiesa, che è governata dal Papa… non viviamo affatto per mezzo e per il Papa, quasi ci avesse acquistato lui la redenzione eterna; ecco perché l’obbedienza cristiana non può né sempre né in tutto identificare il Papa con Gesù Cristo”.
La storia della Chiesa ha conosciuto Papi santi, e sono una minoranza, papi indegni, in numero ristrettissimo, mentre la maggioranza furono papi “più o meno convenienti”. Non senza ragione San Vincenzo di Lerins poté affermare già nel V secolo che alcuni Papi Dio li dona, altri li tollera, tal altri li infligge.
Ma nessuno di essi, nella pienezza della sua autorità, ha potuto o potrà mai insegnare l’eresia. “Tale essendo il rapporto di ogni Papa e della serie dei Papi col Sommo Sacerdote Gesù Cristo – afferma il Padre Camel –, le debolezze di un Papa non debbono farci dimenticare, sia pure per poco, la saldezza e la santità della signoria del nostro Salvatore, impedendoci di vedere la potenza e la sapienza di Gesù, che tiene in mano anche i papi insufficienti e contiene la loro insufficienza in limiti invalicabili”.
Non è certo un caso che nel Canone Romano durante la S. Messa il sacerdote prega “Pro ecclesia tua sancta catholica” e “una cum famulo tuo papa nostro”. Il Canone dichiara la santità della Chiesa non quella del Papa, perché questi, a differenza della Chiesa, non è necessariamente santo.
“La Chiesa è santa con delle membra peccatrici, tra cui noi stessi; delle membra peccatrici che – ahimè – non tendono affatto o non tendono più alla santità. Può accadere benissimo che lo stesso papa figuri in questa triste categoria. Lo sa Dio.
In ogni caso, poiché la condizione del capo visibile della Santa Chiesa è quella che è, cioè non necessariamente la condizione di un santo, non bisogna scandalizzarsi se prove, talvolta molto crudeli, sopraggiungono alla Chiesa proprio da parte del suo capo visibile.
Non bisogna scandalizzarsi se, benché soggetti al Papa, non possiamo tuttavia seguirlo ciecamente, incondizionatamente, in tutto e sempre. Nella misura in cui la nostra vita interiore sarà orienta verso il capo invisibile della Chiesa, il Signore Gesù, il Sommo Sacerdote, nella misura in cui la nostra vita interiore sarà nutrita della Tradizione apostolica con i dogmi, il Messale e il rituale della Tradizione, con la tendenza alla carità perfetta, che è l’anima di questa santissima tradizione, in questa stessa misura accetteremo molto meglio di dover santificarci in una Chiesa Militante, il cui capo visibile, se è preservato dall’errore entri limiti ben precisi, non è tuttavia sottratto alla comune condizione di peccatore” (P. Calmel).
Quali sono questi limiti? Il dogma dell’infallibilità pontificia, proclamato nel Concilio Vaticano I, punto d’arrivo della storia pontificia di quasi due millenni, stabilisce i limiti dell’infallibilità dei sovrani Pontefici, limitandola ai pronunciamenti ex cathedra in materia di fede e di morale. “Il Papa parla ex cathedra, cioè infallibilmente – spiega il cardinal J. H. Newman, oggi beato, che partecipò al Vaticano I –, quand’egli parla: primo, come maestro universale; secondo, in nome e con l’autorità degli apostoli; terzo, su un punto o materia di fede o di morale; quarto, con l’intenzione di obbligare ogni membro della Chiesa ad accettare e a credere alla sua decisione.
Naturalmente – aggiunge – queste condizioni pongono una grande restrizione al campo della sua infallibilità. Per questo Billuart (teologo domenicano, n.d.r.), parlando del Papa scrive: ‘Quando esprime la propria opinione personale, il Pontefice non è infallibile né in una conversazione, né in una discussione, né quando interpreta la Bibbia o i Padri, né allorché consulta o esprime le sue ragioni su un punto da lui definito, né quando risponde alle lettere né nelle deliberazioni private’”.
Queste chiarificazioni sono contenute nella celebre Lettera al duca di Norfolk scritta da Newman nel 1874 in occasione di una polemica sorta intorno al dogma dell’infallibilità pontificia, da alcuni considerato la tomba della libertà di coscienza.
In essa, oltre a specificare i limiti entro i quali va applicata la definizione dell’infallibilità papale, sostiene il primato della coscienza (definita “primo vicario di Cristo”), a condizione che sia assolutamente retta e certa: “Se uno di noi è in grado di dire a se stesso, come se si trovasse alla presenza di Dio, che non deve agire in conformità di quanto gli viene comandato dal papa, egli è obbligato a obbedire, e, se disobbedisse, commetterebbe un peccato […] Certamente se sarò costretto a coinvolgere la religione in un brindisi al termine di un pranzo, brinderò al papa – se vi farà piacere -, ma prima alla coscienza, e poi al Papa”.
Newman, come molti altri suoi contemporanei, temeva e rigettava il “papismo”, ossia quella degenerazione del vero amore al Papa che fa del Vicario di Cristo una sorta di divinità in terra, infallibile a ogni più sospinto.
Non è questo l’insegnamento della Chiesa Cattolica. Newman tenne a precisarlo e il suo pensiero è di grande attualità. Anche Dom Prosper Guéranger, insigne restauratore di Solesmes, che tanto si prodigò per il dogma dell’infallibilità pontificia, all’indomani della proclamazione pianse, e non di gioia. Presagiva, infatti, gli abusi – il papismo – di cui il dogma sarebbe stato oggetto, a danno della vera fede.
Occorre distinguere l’indefettibilità del Papato, che Cristo stesso ha voluto e promesso e che pertanto sussiste sempre, dall’infallibilità del Papa che sussiste solo quando egli voglia esercitarla (fin qui molto raramente), nonché – ancor più! – dalla sua impeccabilità, che non sussiste mai. O, detto in altri termini, una cosa è il Papa, come uomo, altra cosa il Papato, come istituzione. Questo resta, quello passa. Il “papismo” è la degenerazione di entrambi.
Maria Pia Ghislieri
Fonte: Concilio Vaticano II