Nel suo videomessaggio per la cerimonia conclusiva del Congresso eucaristico internazionale di Dublino, Benedetto XVI ha affermato che i desideri dei Padri Conciliari circa il rinnovamento liturgico sono stati oggetto di “molte imcomprensioni ed irregolarità”. “La riforma voleva condurre la gente a un incontro personale con il Signore presente nell’Eucaristia – ha detto il Papa – ma la revisione è rimasta ad un livello esteriore”. Ma come e perché è stata fraintesa la riforma liturgica del Concilio Vaticano II? Fabio Colagrande lo ha chiesto a mons. Nicola Bux, docente alla Facoltà teologica pugliese e consultore presso le Congregazioni per la Dottrina della Fede e per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.
R. – E’ avvenuto quello che è accaduto a livello sociale e morale, cioè la caduta in verticale dell’etica e così è accaduto con la liturgia. Cioè, la liturgia è stata intesa non più come il diritto di Dio di essere adorato, come Egli stesso ha stabilito, ma come la nostra pretesa di creare noi un culto e di offrirlo secondo – come dire – i nostri usi e costumi. Il profeta Isaia dice: “Avete reso il mio culto un imparaticcio di usi umani”, per cui la liturgia – come il Papa, quando era ancora teologo, cardinale, ha scritto – è diventata una sorta di intrattenimento. Ecco: questo, credo, che sia il punto. Credo che oggi vada in qualche modo ristabilito, ripristinato il principio che la liturgia non è un bene a nostra disposizione, dove è possibile fare quello che ci piace, ci mettiamo dentro quello che vogliamo e ne togliamo quello che non ci va… bensì, è un atto pubblico della Chiesa, come il Vaticano II stesso ricorda nella Costituzione sulla Liturgia, e pertanto va regolato dalla Santa Sede e, come il Consiglio stesso ricorda nel famoso paragrafo 22 della Costituzione al comma 3, “Nessun altro – assolutamente, anche se sacerdote, può aggiungere, togliere o mutare alcunché di sua iniziativa in materia liturgica”. Quello che è accaduto nel mondo, e che il Papa stesso in qualche modo denuncia, è esattamente quello che il Consiglio non voleva.
D. – Quindi, il rinnovamento liturgico voluto dai Padri conciliari bisogna ancora attuarlo?
R. – E certamente. Il rinnovamento va continuato. A parte che la liturgia, come d’altronde la vita della Chiesa è – come si suol dire in latino – semper reformanda, cioè parleremmo di una riforma continua, ma badi bene: una riforma, non una rivoluzione. Molti, purtroppo, hanno inteso la riforma come una rivoluzione, cioè ribaltiamo tutto, mettiamo al centro della liturgia l’uomo invece che Dio, l’uomo con le sue pretese, con le sue voglie, la sua – diciamolo pure – immancabile volontà di protagonismo, dimenticando invece che il protagonista nella liturgia è un altro: è il Signore, è Dio. “Adora il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio fuori di me”: questo è il primo dei Comandamenti. Non ci lamentiamo poi che anche l’etica – ahimé – anche l’etica, nella Chiesa, è caduta in verticale. Il Papa ha detto una celebre frase abbastanza forte, e cioè che la crisi della Chiesa dipende in gran parte dal crollo della liturgia. E perché accade questo? Perché quando noi ci facciamo come a immagine nostra Dio, tutti i comandamenti vanno giù a rotoli.
D. – Vuole farci un esempio pratico di questa mancata revisione delle forme liturgiche, del modo in cui è stato travisato il volere dei Padri conciliari?
R. – Faccio un esempio, che il Papa stesso ha richiamato proprio in ordine al Congresso che si sta celebrando: l’adorazione. La liturgia, per sua natura, è un atto di culto, non è un atto di intrattenimento della gente. Oggi i preti, nella liturgia dicono alla fine della Messa: “Buongiorno, buonasera, come state? Mi raccomando, andate a casa, fate questo, fate quest’altro …”. La liturgia, come atto della Chiesa universale, non è un atto di un gruppo che io possa trasformare in una sorta di riunione di famiglia. No, e questo è il punto. Allora, l’adorazione: adorazione significa che la gente viene in chiesa perché deve riconoscere e adorare il Signore. E dunque questa è la cosa fondamentale. Se viene meno questo, è chiaro che ogni altra cosa è possibile. C’è il fraintendimento, c’è – per esempio – il fatto che il tabernacolo oggi, come lamentano molti laici, venga messo in un angolo, non lo si trova nemmeno più, al centro invece troneggia il seggio del prete e questo naturalmente non è scritto da nessuna parte ma, via via, è come uno slittamento progressivo: abbiamo tolto dal centro il Signore nel Santissimo Sacramento e ci siamo messi noi, noi chierici. Ahimé, tra l’altro, in un momento in cui – come si può vedere dalle cronache – proprio noi chierici non brilliamo certo. Faremmo molto bene a stare da un lato, come ministri. D’altronde, la parola “ministro” vuol dire “colui che serve”, non certamente colui che è il padrone.
Fonte: Radio Vaticana 19/6/12