(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.223, Merc. 01/10/2014)
La «preghiera della Chiesa» per i tanti «Gesù sofferenti» che «sono dappertutto» anche nel mondo odierno. L’ha chiesta Papa Francesco durante la messa celebrata martedì mattina, 30 settembre, a Santa Marta, invocandola soprattutto per «quei nostri fratelli che per essere cristiani sono cacciati via dalla loro casa e rimangono senza niente», per gli anziani lasciati da parte e gli ammalati soli negli ospedali: insomma per tutte quelle persone che vivono «momenti bui».
Il Pontefice ha preso spunto dalla prima lettura — tratta dal libro di Giobbe (3, 1-3.11-17.20-23) — in cui è contenuta «una preghiera un po’ speciale. La stessa Bibbia dice che è una maledizione», ha spiegato. Infatti «Giobbe aprì la bocca e maledì il suo giorno», lamentandosi «di quello che gli è accaduto» con queste parole: «Perisca il giorno in cui nacqui. Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Così ora giacerei ed avrei pace. Oppure, come un aborto nascosto, più non sarei o come i bambini che non hanno visto la luce».
In proposito il vescovo di Roma ha fatto notare come «Giobbe, l’uomo ricco, l’uomo giusto, che davvero adorava Dio e andava sulla strada dei comandamenti», dicesse queste cose dopo aver «perso tutto. È stato messo alla prova: ha perso tutta la famiglia, tutti i beni, la salute, e tutto il suo corpo è diventato una piaga». Insomma «in quel momento è finita la pazienza e lui dice queste cose. Sono brutte! Ma lui era abituato a parlare con la verità e questa è la verità che lui sente in quel momento». Al punto da dire: «Sono solo. Sono abbandonato. Perché? Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: è stato concepito un maschio».
In queste parole di Giobbe il Papa ha ravvisato una sorta di «maledizione contro tutta la sua vita», sottolineando che essa viene pronunciata «nei momenti bui» dell’esistenza. E lo stesso accade anche in Geremia, nel capitolo 20: «Maledetto il giorno in cui nacqui». Parole che spingono a chiedersi: «Ma questo uomo bestemmia? Quest’uomo che sta solo, così, in questo, bestemmia? Geremia bestemmia? Gesù, quando si lamenta — “Padre, perché mi hai abbandonato?” — bestemmia? Il mistero è questo».
Il Pontefice ha confidato che nella sua esperienza pastorale tante volte egli stesso sente «persone che stanno vivendo situazioni difficili, dolorose, che hanno perso tanto o si sentono sole e abbandonate e vengono a lamentarsi e fanno queste domande: Perché? Si ribellano contro Dio». E la sua risposta è: «Continua a pregare così, perché anche questa è una preghiera».
Come lo era quella di Gesù, quando ha detto al Padre: «Perché mi hai abbandonato?», e com’è quella di Giobbe. Perché «pregare è diventare in verità davanti a Dio. Si prega con la realtà. La vera preghiera viene dal cuore, dal momento che uno vive». È appunto «la preghiera nei momenti del buio, nei momenti della vita dove non c’è speranza» e «non si vede l’orizzonte»; al punto che «tante volte si perde la memoria e non abbiamo dove ancorare la nostra speranza».
Da qui l’attualità della parola di Dio, perché anche oggi «tanta gente è nella situazione di Giobbe. Tanta gente buona, come Giobbe, non capisce cosa le è accaduto. Tanti fratelli e sorelle che non hanno speranza». E subito il pensiero del Pontefice è andato «alle grandi tragedie» come quelle dei cristiani cacciati dalle loro case e privati di tutto, che si domandano «Ma, Signore, io ho creduto in te. Perché?». Perché «credere in te è una maledizione?».
Lo stesso vale per «gli anziani lasciati da parte», per gli ammalati, per la gente sola negli ospedali. È infatti «per tutta questa gente, questi fratelli e sorelle nostre, e anche per noi quando andiamo nel cammino del buio», che «la Chiesa prega». E facendolo, «prende su di sé questo dolore».
Un esempio in tal senso viene proprio da un’altra lettura della messa, il salmo 87, dove si proclama: «Io sono sazio di sventure. La mia vita è sull’orlo degli inferi. Sono annoverato fra quelli che scendono nella fossa. Sono come un uomo ormai senza forze. Sono libero, ma tra i morti, come gli uccisi stessi nel sepolcro, dei quali non conservi più il ricordo». Proprio così, ha ribadito Francesco, «la Chiesa prega per tutti quanti sono nella prova del buio».
A queste persone vanno aggiunte anche quelle che, pur «senza malattie, senza fame, senza bisogni importanti», si ritrovano con «un po’ di buio nell’anima». Situazione in cui «crediamo di essere martiri e smettiamo di pregare», dicendoci arrabbiati con Dio, al punto da non andare più nemmeno a messa. Al contrario, il brano odierno della Scrittura «ci insegna la saggezza della preghiera nel buio, della preghiera senza speranza».
E il Papa ha citato l’esempio di santa Teresa di Gesù Bambino, che «negli ultimi mesi della vita, cercava di pensare al cielo» e «sentiva dentro di sé, come una voce che diceva: Non essere sciocca, non farti fantasie. Sai cosa ti aspetta? Il niente!».
Del resto tutti noi «tante volte passiamo per questa situazione. E tanta gente pensa di finire nel niente». Ma santa Teresa si difendeva da questa insidia: ella «pregava e chiedeva forza per andare avanti, nel buio. Questo si chiama “entrare in pazienza”».
Una virtù che va coltivata con la preghiera, perché — ha ammonito il vescovo di Roma — «la nostra vita è troppo facile, le nostre lamentele sono lamentele da teatro» se paragonate ai «lamenti di tanta gente, di tanti fratelli e sorelle che sono nel buio, che hanno perso quasi la memoria, quasi la speranza, che sono esiliati, anche da se stessi».
Ricordando che Gesù stesso ha percorso «questa strada: dalla sera al monte degli Ulivi fino all’ultima parola dalla Croce: “Padre, perché mi hai abbandonato?”», il Papa ha ricavato due pensieri conclusivi «che possono servirci». Il primo è un invito a «prepararsi, per quando verrà il buio»: esso «verrà, forse non come a Giobbe, tanto duro, ma avremo un tempo di buio» tutti. Perciò occorre «preparare il cuore per quel momento». Il secondo è invece un’esortazione «a pregare, come prega la Chiesa, con la Chiesa, per tanti fratelli e sorelle che patiscono l’esilio da se stessi, nel buio e nella sofferenza, senza speranza alla mano».
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