Un giorno, raccontava Chesterton, “un ateo molto leale con cui mi trovai a discutere fece uso di questa espressione: ‘Gli uomini sono stati tenuti in schiavitù per paura dell’inferno’. Gli ho fatto osservare che se avesse detto che gli uomini erano stati affrancati dalla schiavitù per paura dell’inferno, avrebbe almeno fatto riferimento a un inoppugnabile fatto storico”(1).
In effetti la sparizione della schiavitù – una delle più clamorose e stupefacenti rivoluzioni, conseguenti al cristianesimo (un evento unico in quanto la schiavitù esisteva da sempre, tanto da essere addirittura ritenuta naturale, un “diritto”) – ha avuto un motivo esclusivamente spirituale (2).
Non c’è affatto una ideologia sociale o politica all’origine di questo sconvolgimento, ma un uomo: Gesù.
Il fatto che fin da Paolo sia stata proclamata la totale uguaglianza – in forza di Cristo – di ebrei e pagani, uomini e donne, schiavi e liberi e il fatto che, nel momento delle grandi conquiste e dell’apogeo del papato, il Successore di Pietro, l’amico di Gesù, abbia proclamato davanti al mondo, contro tutti gli appetiti delle potenze politiche ed economiche planetarie, che “Indios veros homines esse” (3), è una “rivoluzione”, un capovolgimento di mentalità che non si spiega certo con l’eredità della cultura classica (teorizzavano lo schiavismo sia i filosofi greci che il diritto romano), né era patrimonio della tradizione ebraica, tanto meno apparteneva alla cultura islamica.
Non era neanche – come qualcuno potrebbe credere – l’esito di un progresso civile, di un’evoluzione storica neutrale, perché – anzi – di lì a poco, con la frattura protestante, l’avvento della cultura laica, illuminista e l’indebolirsi della Chiesa, tornerà a dominare proprio l’ideologia schiavistica della diseguaglianza degli esseri umani. Addirittura giustificata con teorie scientifiche (4).
Dunque quella rottura storica, che andava contro le cosiddette “leggi di natura”, cioè le leggi del dominio, era tutta e solo dovuta all’irrompere di Gesù nella storia.
Era dovuta al suo fare scudo agli uomini indifesi col suo stesso corpo, al suo mettersi al posto di tutte le vittime e di tutti i sofferenti, al suo espiare per ciascun uomo, perfino per i colpevoli. Nessuno uomo poteva più essere vulnerato, nel corpo o nell’anima.
Come notava Léon Bloy: “Gesù sta al centro di tutto, assume tutto e si fa carico di tutto, tutto soffre. E’ impossibile colpire oggi un qualunque essere senza colpire lui, è impossibile umiliare qualcuno o annientarlo, senza umiliare lui, maledire o assassinare uno qualsiasi, senza maledire o uccidere lui” (5).
C’è voluto un grande filosofo come René Girard per far capire la colossale rivoluzione portata nella storia umana dal racconto evangelico della vita e della morte di Gesù (6).
Così cambiò tutto. Nulla fu più come prima. Anche se ci vollero secoli. Kant era convinto che “il Vangelo fosse la fonte da cui è scaturita la nostra cultura”, tutto ciò che noi chiamiamo “la civiltà”.
Se Gesù non fosse nato, se non fosse stato fra noi – per fare qualche esempio – non ci sarebbero stati né l’Europa moderna (con tutto quello che ha dato al mondo, europeizzandolo), né più il ricordo e le opere dell’antichità greca e romana che furono custodite e tramandate dai monaci.
Non ci sarebbe stata neanche la moderna economia (7), col suo inedito benessere perché sempre i monaci – seguendo Gesù lavoratore – nobilitarono il lavoro manuale, un tempo ritenuto prerogativa degli schiavi, al livello divino della preghiera, e trasformarono l’Europa devastata dalle invasioni barbariche e coperta di foreste selvagge e acquitrini, in un giardino fertile e rigoglioso.
Come ebbe a dire Henry Goodel “i monaci benedettini lungo un arco di 1500 anni salvarono l’agricoltura”. Quindi la sopravvivenza stessa dei popoli e il loro futuro.
Un altro studioso aggiunse: “Dobbiamo ai monaci la ricostruzione agraria di gran parte dell’Europa” (8), con tutto ciò che comportò in termini di alimentazione, benessere, esplosione demografica. “Educatori economici”, li definì lo storico Henri Pirenne.
L’abolizione della schiavitù (9) portò all’invenzione (sostitutiva) di macchine per sfruttare l’energia idraulica che “i monaci usavano per battere il frumento, setacciare la farina, follare i panni e per la conciatura” (10).
Così, questa messa al bando della logica dei “sacrifici umani” (a cui apparteneva lo schiavismo), non solo non fece decadere la società, come riteneva Nietzsche, ma fece fare un balzo avanti nella tecnologia che produsse vantaggi straordinari e immensi progressi.
I monaci insegnarono ai contadini a dissodare, bonificare, coltivare e irrigare e l’Europa divenne fertile. I monaci introdussero l’allevamento del bestiame e dei cavalli, “la fabbricazione della birra, l’apicoltura, la frutticoltura. Dovettero ai monaci la propria esistenza il commercio del grano in Svezia, la fabbricazione del formaggio a Parma, i vivai di salmone in Irlanda” (11) e tante altre cose.
Citiamo – per fare un altro esempio – la produzione del vino e “la stessa scoperta dello champagne che si può far risalire a un monaco benedettino, Dom Perignon, dell’Abbazia di Saint Pierre a Hautvillers sulla Marna” (12).
Sottolineo in particolare il vino perché è evidente la nobilitazione che ne fece Gesù il quale lo scelse, insieme al pane, addirittura per il sacramento della sua presenza misteriosa e quindi per la memoria di lui e del suo sacrificio.
Grazie a questa fiorente agricoltura rifondata dai monaci l’Europa superò la sussistenza e fiorì il suo successivo progresso che umanizzò il mondo.
Perfino la celebre bellezza del paesaggio italiano – specialmente della campagna umbra e toscana – porta il segno vivo del cattolicesimo che – secondo Franco Rodano – ha plasmato la “millenaria capacità contadina (conservata dalla Controriforma) di vivere il lavoro non solo come duro travaglio disseminato di ‘spine e triboli’, ma anche come accurata e paziente ricerca, al tempo stesso, del necessario e del bello” (13).
Tutta questa fioritura di una civiltà non era stata perseguita dai monaci. Loro cercavano solo il regno di Dio, il resto – secondo la promessa di Gesù – fu dato in sovrappiù. Fu il frutto di una liberazione dell’umano.
I monaci non avevano un progetto sociale, politico o culturale. Il loro pensiero quotidiano era alla Gerusalemme celeste, quella che rappresentavano come l’incontro definitivo con Gesù.
Ecco le travolgenti parole di un autore monastico del XII secolo:
“Egli è il bellissimo d’aspetto, il desiderabile a vedersi, colui che gli angeli desiderano contemplare. Egli è il re pacifico, il cui volto tutta la terra desidera. Egli è la propiziazione dei penitenti, l’amico dei miseri, il consolatore degli afflitti, il custode dei piccoli, il maestro dei semplici, la guida dei pellegrini, il redentore dei morti, forte ausilio di chi combatte, pio remuneratore di chi vince.
Egli è l’altare d’oro nel Santo dei Santi, dolce riposo dei figli, visione di gioia per gli angeli (…). Che gli renderemo per tutto ciò che ci ha donato? Quando saremo liberati dal corpo di questa morte? Quando saremo inebriati dall’abbondanza della casa di Dio nella sua luce vedendo la luce? Quando apparirà Cristo, vita nostra, e noi con Lui nella gloria?” (14).
Ecco cos’avevano nel cuore e nella mente questi uomini forti e temerari mentre – in fraternità, umiltà e obbedienza – salvavano la bellezza dalla barbarie, l’umanità dalla bestialità, mentre trascrivevano codici, dissodavano campi, dipingevano miniature, sanavano paludi, costruivano abbazie, inventavano sistemi di irrigazione e coltivazione e cantavano a ogni ora le lodi di Dio, dagli abissi delle foreste alle pendici delle montagne.
Mi sono soffermato su particolari di vita quotidiana per sottolineare quante piccole, innumerevoli conseguenze – senza che ne abbiamo coscienza – ebbe la vita di Gesù. Ma bisognerebbe menzionare anche cose e istituzioni più importanti.
Non ci sarebbero state né scuole, né università, né ospedali (15), con tutta una serie di grandi opere di carità (16), né la scienza moderna e la tecnologia che conosciamo, senza i monaci che vivevano nella meditazione della vita di Gesù (17). E nemmeno la musica.
E’ facile provare storicamente che queste istituzioni, nate nel medioevo cristiano (insieme alle Cattedrali e all’arte occidentale), sarebbero state del tutto inconcepibili senza la storia cristiana.
Se Gesù non fosse venuto fra noi non sarebbe stato possibile conoscere neanche l’amore come oggi lo conosciamo, cioè la felicità terrena fra un uomo e una donna innamorati che formano una famiglia, generano figli e si sostengono per la vita, facendo crescere la loro comunità e il loro popolo.
E’ quanto mostra Denis De Rougement nella sua memorabile opera “L’amore e l’Occidente”.
Prima di Gesù all’uomo di presentava solo la disperata alternativa fra i contratti matrimoniali, dove non era previsto l’amore (e dove la donna era proprietà del marito (18)), e l’ “amour passion”, il mito della fusione e dell’estasi, sempre inappagata. Era l’uomo condannato all’infelicità nel suo desiderio di infinito.
“L’incarnazione del Verbo nel mondo” scrive De Rougement “è questo l’inaudito evento che ci libera dall’infelicità di vivere” (19).
I popoli cristianizzati scoprono, grazie all’insegnamento della Chiesa e alla testimonianza dei santi, l’amore monogamico e indissolubile di cui parla Gesù.
Prende inizio quella nuova storia dell’amore, finalmente felice, che si chiama famiglia: “Amare diviene allora un’azione positiva, un’azione di trasformazione”.
Gesù comandò addirittura “Amate i vostri nemici”. Dentro questa misura divina e infinita, chiese “l’abbandono dell’egoismo, dell’io fatto di desiderio e d’angoscia; la morte dell’uomo isolato, ma altresì la nascita del prossimo. A coloro che gli domandano ironicamente ‘chi è il mio prossimo?’ Gesù risponde: è l’uomo che ha bisogno di te. Tutti i rapporti umani, da quell’istante, mutano di senso. Il nuovo simbolo dell’Amore non è più la passione infinita dell’anima in cerca di luce, ma è il matrimonio di Cristo e della Chiesa. Lo stesso amore umano ne viene trasformato (…). Un amore siffatto, essendo concepito sull’immagine dell’amore di Cristo per la sua Chiesa (Ef. 5, 25), può essere veramente reciproco. Perché egli ama l’altro com’è, anziché amare l’idea dell’amore o la sua vampa mortale e deliziosa. Inoltre è un amore felice, malgrado gli impacci del peccato, in quanto conosce fin da quaggiù, nell’obbedienza, la pienezza del suo ordine” (20).
Gesù fa scoprire l’ “agapé”, l’amore che riconosce un “tu” prima di affermare il proprio desiderio. L’amore che ama l’altro (accettandone i limiti) e non l’idea dell’altro. L’amore che perdona e che sostiene.
E dunque adesso Tristano può finalmente sposare la sua Isotta, smettendola di farne il “simbolo del Desiderio” (sempre inappagato e smanioso di morte). La sposi e viva, sperimenti con lei la felicità e la fatica dei giorni, generi dei figli e costruisca la dimora degli uomini, scoprendo il vero eroismo che è quello della vita quotidiana, quello – come diceva Charles Péguy – del misconosciuto “padre di famiglia” e della madre.
Un amore che “crea” e fa crescere, non distrugge nel possesso, un amore che permane fedelmente e quindi costruisce nel tempo. Un amore che protegge, che aiuta e che sostiene è – per dirla con Chesterton – “la più straordinaria delle trasgressioni e la più romantica delle rivolte” (21).
E’ anche la base della civiltà, questo delicato e fragilissimo ponticello di umanità che sta sospeso sull’abisso dell’istinto selvaggio. E anche la base di ogni Stato concepito come casa di un popolo.
Del resto senza Gesù non avremmo mai avuto neanche lo Stato laico, perché – come ha dimostrato Joseph Ratzinger in un memorabile discorso alla Sorbona – è Gesù che ha desacralizzato il potere, il quale da sempre aveva usato le religioni per assolutizzare se stesso. Dopo Gesù, Cesare non si può più sovrapporre a Dio, non può avere più un potere assoluto sulle persone e le cose. Con Gesù inizia veramente la storia della libertà umana.
Da Antonio Socci, “Indagine su Gesù”, Rizzoli
1) Gilbert K. Chesterton, San Francesco d’Assisi, Lindau 2008, p. 31
2) Ecco la situazione di Roma, patria del diritto, all’arrivo del cristianesimo descritta da Gustave Bardy: “All’ultimo posto della società e, almeno in alcuni casi, più vicini agli animali che all’uomo, ci sono gli schiavi. Essi non sono persone, ma cose, beni di proprietà che si acquistano e vendono, che si utilizzano a discrezione e da cui ci si separa una volta che si cessa di averne bisogno. La pratica potrà essere di benevolenza, ma, fino agli Antonimi, la teoria resta quella: la legge non riconosce agli schiavi alcun diritto civile o religioso. Così come lo schiavo non è autorizzato a fondare una famiglia, altrettanto è impedito dall’accedere ai culti nazionali”, in La conversione al cristianesimo nei primi secoli, Jaca Book 2002, pp. 19-20
3) Dopo la scoperta dell’America si pose di nuovo il problema della schiavitù e il 2 giugno 1537 papa Paolo II emana la memorabile Bolla “Sublimis Deus” (o anche “Veritatis Ipsa”) con la quale spazza via tutti gli appetiti schiavistici sulle popolazioni del Nuovo Mondo, proclamando che “Indios veros homines esse”. Per renderli schiavi e razziare i loro beni, si adduceva l’idea che fossero dei selvaggi, non veri esseri umani, e si portava come prova il fatto che non avevano la fede cristiana. Il Papa risponde definendo i portatori di questi potenti interessi addirittura “manutengoli di Satana, desiderosi di soddisfare la loro avidità, a costringere gli indios occidentali e meridionali e altri popoli, che ci sono venuti a conoscenza in questi ultimi tempi, a servirli come fossero animali bruti, sotto il pretesto che non hanno la fede. Noi che, seppure indegnamente, facciamo le veci dello stesso nostro Signore in terra e che cerchiamo con ogni sforzo di portare allo stesso ovile le pecore del suo gregge a noi affidate che sono fuori di questo ovile, vedendo che gli stessi indios, in quanto veri uomini, non solo sono capaci di ricevere la fede cristiana, ma come ci è stato riferito, accorono con entusiasmo ad accettarla, abbiamo deciso di prendere dei provvedimenti adeguati. Con l’autorità apostolica e attraverso questo documento stabiliamo e dichiariamo che i predetti indios, e tutti gli altri popoli che in futuro verranno scoperti dai cristiani, anche se non sono cristiani, non si possono privare della libertà e del dominio della loro proprietà, e che è lecito ad essi godere della loro libertà e dei loro beni e acquisirne, né che si debbono ridurre in schiavitù. Se qualche cosa sarà stata fatta in contrario la dichiariamo nulla e invalida alla detta fede di Cristo”.
Certo, nel corso dei secoli le turpitudini si continueranno a perpetrare e anche uomini di Chiesa assumeranno atteggiamenti e formuleranno posizioni contrapposte a questo pronunciamento solenne del magistero, tuttavia sempre questo sarà fatto in contrapposizione all’insgenamento del Vangelo e sotto il giudizio di condanna.
4) Vedi Leon Poliakov Il mito ariano, Editori Riuniti 1999
5) Cit. in Descalzo, cit., pp. 25-26
6) “I Vangeli si riveleranno da sé come potenza universale di rivelazione”, scrive Girard. Demitizzano e distruggono i meccanismi della persecuzione e della colpevolizzazione della vittima. Girard ha mostrato come tutte le civiltà precristiane si fondavano sul rito sacrificale del capro espiatorio e sulla pratica cultuale o culturale dei “sacrifici umani” (letteralmente, nelle religioni pagane, e come meccanismo sociale e politico per esempio nello schiavismo o nella pratica della guerra). Tutto questo è stato spazzato via e “che lo si sappia o no, responsabili di questo crollo sono i Vangeli”, René Girard, Il capro espiatorio, Adelphi 1999, pp. 164-165
7) Thomas Woods, Comela Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale, Cantagalli 2007, p. 14, p. 75 e ssgg e p. 161
8) Idem, pp. 36-37
9) Rodney Stark, La vittoria della ragione, Lindau 2006, pp. 51-62.
10) Woods, op. cit. p. 41
11) Idem, p. 39
12) Idem, p. 40
13) Franco Rodano, Lettere dalla Valnerina. Questa intuizione è ripresa e valorizzata dal filosofo marxista Mario Tronti nel saggio su “Rivista Trimestrale” n. 3-4/87.
14) Jean Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, Sansoni 1983, p. 77
15) Come ha spiegato René Girard anticamente si conosceva la solidarietà familiare, di tribù, di etnia, di connazionalità, ma che dovesse essere soccorso il sofferente in quanto “uomo”, anche se straniero e sconosciuto, è una rivoluzione morale e culturale portata dal cristianesimo. Scrive lo storico della medicina Adalberto Pazzini: “Frattanto una nuova forse morale e spirituale andava conquistando gli animi e, attraverso le persecuzioni ed il martirio, dilagava nel mondo: il Cristianesimo. A prescindere dal suo valore di Rivelazione e da quanto concerne il lato puramente religioso, a noi interessa qui puntualizzare il concetto di carità e di amor del prossimo che emerse dalla Predicazione evangelica, riservandoci di tornare sull’argomento più diffusamente, allorché inizieremo lo studio del medioevo. Qui… cade l’opportunità di ricordare che, ancora nelle ambasce create dalle persecuzioni, il Cristianesimo mise in atto quel che può essere definito il maggior comandamento ‘sociale’ della nuova religione, e cioè la carità e l’amor del prossimo, concetti assai vaghi (se pur esistevano) per l’innanzi. Questo amor di prossimo, giusta la parabola evangelica detta del ‘Buon Samaritano’, si esplicò in una organizzazione che la primitiva Ecclesia istituì in favore dei sofferenti e, principalmente, degli ammalati. Ad essa conseguente è il concetto di ‘ospedale’ come luogo in cui, per solo e unico spirito di carità, si ospitavano e si curavano i malati cui mancasse ogni possibilità di risorsa. Xenodochi furono chiamati questi ospizi, parola la cui etimologia significa ‘ricovero per stranieri’ (pellegrini), ma che assunse, poi, significato vero e proprio di ospedale. Pie persone e Santi si resero esecutori del comandamento evangelico, quando ancora infierivano le persecuzioni. Secondo la tradizione, il Papa s. Cleto, nell’anno 80, trasformò la propria casa in ospizio, e ugualmente avrebbe fatto s. Agnese al principio del IV secolo, nella sua casa sulla Nomentana”, Adalberto Pazzini, Storia dell’arte sanitaria dalle origini a oggi, Edizioni Minerva Medica, Torino 1973, pp. 370-372. Woods aggiunge: “Già nel IV secolola Chiesa iniziò a promuovere la creazine di ospedali su larga scala, al punto che quasi ogni città principale si trovò ad averne uno” (op. cit. p. 184).
16) Tutto nasce in modo spontaneo, non da progetti sociali o politici, ma solo dalla carità, dal comandamento di Gesù di amare il prossimo come se stessi e di amare perfino i nemici. Fin dagli inizi questa novità fu – anche da l punto di vista sociale – un ciclone imprevisto. Rodney Stark, nel volume “The Rise of Christianity” (HarperCollins 1997) dimostra che uno dei fattori decisivi della diffusione del cristianesimo nei primi anni fu quell’inedito prendersi cura di poveri, senzatetto, vecchi, malati, abbandonati, vedove, orfani. Da sempre costoro avevano dovuto affrontare da soli la crudeltà del mondo e le prove dell’esistenza, ma “quando irruppe il cristianesimo la sua superiore capacità di affrontare questi problemi cronici diventò presto evidente e giocò un grande ruolo nel suo definitivo trionfo” (p. 162).
17) Nota Gimpel che “il Medioevo introdusse in Europa le macchine in una misura fino ad allora sconosciuta anche ad altre civiltà”. E furono i monaci, come spiega un altro storico, “gli esperti e non pagati consiglieri tecnici del terzo mondo del loro tempo, vale a dire l’Europa, dopo l’invasione dei barbari (…). In effetti, che fosse la macinatura del sale, del piombo del ferro, dell’allume o del gesso, o la metallurgia, l’escavazione del marmo, il tener bottega di coltellinaio o una fabbrica di vetro, o il forgiare piastre di metallo, note anche come ‘piastre del focolare’, non vi era alcuna attività in cui i monaci non dessero prova di creatività e di uno spirito di ricerca fecondo. I benedettini sapevano incanalare il proprio lavoro verso la perfezione. La perizia coltivata nei monasteri si sarebbe diffusa per tutta l’Europa” (Woods, cit., p. 43).
18) Seneca affermava che “è male amare la propria moglie come se fosse un’amante”. Quindi, nel migliore dei casi, a Roma fra i coniugi c’era, oltre al contratto matrimoniale, una rapporto di reciproca solidarietà (Vedi Eva Cantarella, Passato prossimo, Feltrinelli 1996, p. 103).
19) Denis De Rougement, L’amore e l’occidente, Bur 1977, p. 110
20) Idem, pp. 111-112
21) Quello che Emilio Cecchi dice di Chesterton è illuminante per capire il cristianesimo. Dunque il grande convertito inglese ha voluto dimostrare, secondo Cecchi, “che non i fumi dell’oppio, non le voluttà acide e complicate, non gli eccessi dell’individualismo sono poetici e vitali, ma gli affetti semplici della realtà pratica. Ha fatto vedere che c’è più romanzo che in qualunque romanzo nella famiglia dove non succede nessun romanzo; mentre tutti erano disposti a riconoscere un’avventura in un amore clandestino, e non già nella fedeltà del matrimonio”.
Fonte: il blog di Antonio Socci