Si chiama Universal Periodic Review (Upr) ed è una procedura attraverso la quale i 193 Stati membri dell’Onu possono rivolgersi a vicenda delle raccomandazioni per sollecitare il rispetto dei diritti umani sulla base di trattati internazionali come la Dichiarazione universale del 1948 o di impegni volontariamente presi da un dato Paese.
Le raccomandazioni vengono avanzate a intervalli fissi (ogni anno si svolgono tre sessioni e si esaminano 14 Stati alla volta, per cui ciascun ciclo di revisione dura circa un quinquennio) e possono avere diversi gradi di invasività, fino alla richiesta di una specifica azione legislativa.
In sostanza, il meccanismo dell’Upr, in vigore dal 2008, ha l’obiettivo di uniformare le legislazioni nazionali su temi sensibili e può pure essere usato per incoraggiare l’adesione a un trattato internazionale.
Il principio di fondo sarebbe anche accettabile se non fosse che alcuni obblighi definiti nei patti vengono sempre più interpretati dall’Onu e dai suoi organismi in un senso che non è presente nel testo. Un senso spesso contrario agli ordinamenti degli Stati che a suo tempo vi avevano aderito.
È così che tra i “diritti umani” promossi attraverso l’Upr si sono fatte rientrare anche questioni estranee ai trattati, come l’accesso all’aborto, l’orientamento sessuale e l’identità di genere.
Al riguardo, è bene precisare che le raccomandazioni non si limitano a chiedere comprensibilmente la depenalizzazione delle relazioni omosessuali, tuttora considerate reato in diversi Paesi, ma includono l’intero campionario dell’associazionismo Lgbt, dal riconoscimento legale delle unioni gay alle adozioni, fino alla previsione dell’omofobia come aggravante per i cosiddetti crimini dell’odio.
Non a caso, nel suo ultimo rapporto annuale pubblicato a maggio, l’International lesbian and gay association (Ilga) ha lodato le Nazioni Unite perché «i diritti delle persone Lgbt sono stati inclusi in modo notevole nell’agenda 2015 dell’Onu, sia attraverso i canali tradizionali come l’Universal Periodic Review sia attraverso svolte storiche come il meeting di Ginevra sui diritti degli intersessuali».
Il funzionamento dell’Upr, dunque, è particolarmente gradito all’Ilga, una lobby così influente da rappresentare qualcosa come 1.200 associazioni Lgbt (di cui 33 italiane) e da avere status consultivo proprio presso l’Onu e molti governi nazionali. In linea di principio, va detto che le raccomandazioni non sono vincolanti, in quanto lo Stato verso cui sono dirette può decidere di accettarle in tutto o in parte, prenderne semplicemente nota oppure respingerle.
Allo stesso tempo, però, l’articolo 38 della risoluzione Onu sul sistema dell’Upr prevede che il Consiglio per i diritti umani, «dopo aver esaurito tutti gli sforzi per incoraggiare uno Stato a cooperare», affronti il caso di «persistente non-cooperazione» di un Paese membro.
Poiché i contorni di questa fattispecie non sono ben definiti, alcune ong accreditate presso le Nazioni Unite hanno proposto che la mancata accettazione venga considerata appunto come «non-cooperazione», con inevitabili ricadute sul piano internazionale per il Paese che non si adegua.
In questo contesto vago, quel che emerge chiaramente è che le raccomandazioni sono comunque uno strumento di pressione sullo Stato che le riceve e, in un modo o nell’altro, lo impegnano anche riguardo a tematiche intimamente connesse alla sovranità nazionale, come il matrimonio e il diritto di famiglia.
Per avere un’idea dell’efficacia di questo meccanismo nel facilitare l’agenda gay e quella abortista, (che già sono favorite dal lavoro delle diverse agenzie dell’Onu, a partire dall’Organizzazione mondiale della Sanità), basti citare il caso dell’Irlanda.
Nell’autunno del 2011, l’Irlanda ricevette da un unico Paese (la Spagna) la raccomandazione di «riformare ulteriormente la legge sul matrimonio per coppie dello stesso sesso (le unioni civili erano state approvate l’anno prima, ndr) e di cambiare il concetto di famiglia tradizionale così come definito nella Costituzione».
La richiesta venne accettata ed entrò così nell’agenda del governo irlandese, aiutando ulteriormente la propaganda Lgbt, culminata nel referendum del 2015 che ha fatto diventare l’Irlanda il primo Stato a garantire tutela costituzionale al “matrimonio” gay attraverso un voto popolare.
Nel maggio di quest’anno, l’Irlanda ha partecipato al suo secondo ciclo di revisione dei diritti umani: stavolta, tra le tante raccomandazioni ricevute, ce ne sono quindici dirette esplicitamente a legalizzare l’aborto (più altre tre per garantire «i diritti riproduttivi», un eufemismo che sottintende sempre la soppressione del bambino nel grembo materno), oggi ammesso in caso di serio pericolo per la vita della donna.
Il governo irlandese ha spiegato di non poter accogliere raccomandazioni così nette poiché la Costituzione riconosce il diritto alla vita del nascituro, ma si è impegnato a considerare la possibilità di allargare le maglie dell’aborto (la vicepremier Frances Fitzgerald lo ha subito definito «una questione molto viva», dimostrando una certa propensione all’ossimoro). Un impegno sintomo di una deriva preoccupante, se si pensa che cinque anni fa le stesse pretese abortiste erano state respinte in toto.
Se si analizzano i dati del primo ciclo dell’Upr, si nota come le richieste in materia di diritti Lgbt siano per il 91% frutto delle iniziative di pochi Stati (22 su 193) e indirizzate per il 30% all’Africa e per il 23% al Sudamerica.
È significativo, poi, che da appena cinque Paesi – Canada, Francia, Olanda, Repubblica Ceca e Spagna – provenga ben il 49% delle raccomandazioni, il che rende l’idea di come questa procedura si presti facilmente all’influenza di minoranze interessate. Sebbene in Italia non manchino politici solerti a proporre leggi contro la famiglia e contro la vita, anche il nostro Paese ha sperimentato le raccomandazioni pro-Lgbt in sede Onu.
Nell’autunno 2014, il governo Renzi fu in tal senso destinatario di cinque richieste che andavano dall’apertura alle nozze gay (Gran Bretagna) all’inclusione dell’orientamento sessuale tra le condizioni da proteggere contro il discorso d’odio (Canada).
Difficile dire quanto abbiano pesato in concreto queste pressioni (il ddl Scalfarotto sull’omofobia, per esempio, era già stato presentato), ma è evidente che il funzionamento dell’Upr, con il suo sistema di revisione su base quinquennale che induce gli Stati a uniformarsi in fretta, oltre a comportare un’invasione di campo in materie di competenza nazionale, assegna anche una corsia preferenziale alle rivendicazioni Lgbt. Come dire, il Pensiero Unico non può aspettare.
Fonte: La NBQ