La questione degli abusi sessuali nella Chiesa ha un po’ messo in disparte il dibattito su Amoris laetitia e su tutto ciò che ne era seguito a proposito di aderenza del magistero alla retta dottrina. Ma, com’è ovvio, le questioni sono collegate. Appare dunque il caso di riprendere il filo della discussione e lo facciamo con uno specialista, monsignor Nicola Bux, teologo consultore della Congregazione per le cause dei santi, dopo esserlo stato in quella della dottrina della fede, del culto divino e dell’ufficio delle celebrazioni pontificie.
Autore, fra numerosi altri libri, del saggio Pietro ama e unisce. La responsabilità del papa per la Chiesa universale (Edizioni Studio Domenicano), monsignor Bux è appena rientrato in Italia dall’Argentina, dove, a Buenos Aires, è stato invitato al XXI Encuentro de formacion catolica, sul tema La liturgia, fuente y expresion de la fe.
Don Nicola, eresia e scisma, parole che sembravano sparite dal vocabolario dei cattolici, stanno tornando al centro di numerose analisi e osservazioni sulla situazione attuale della Chiesa. Vogliamo fare un po’ il punto sullo status quaestionis dopo Amoris laetitia e il successivo dibattito?
Mi sembra che dopo la pubblicazione, avvenuta il 24 settembre 2017, della Correctio filialis de haeresibus propagatis (Correzione filiale in ragione della propagazione di eresie), e la Dichiarazione promulgata a Roma, dalla conferenza del 7 aprile scorso, dove intervennero i cardinali Brandmüller e Burke, l’idea che il papa stesso, mediante il suo magistero, sia incorso in affermazioni eretiche è ormai al centro di un vasto dibattito, che di giorno in giorno si fa sempre più appassionato.
All’origine c’è l’esortazione apostolica Amoris laetitia, nella quale, secondo i quaranta firmatari della Correctio (saliti nel frattempo a duecentocinquanta, senza contare le migliaia di adesioni collegate all’iniziativa) sarebbero rintracciabili ben sette proposizioni eretiche riguardanti il matrimonio, la vita morale e la ricezione dei sacramenti.
È appena il caso di notare che i problemi, almeno per quanto riguarda Amoris laetitia, si sono notevolmente aggravati e complicati. Come noto, sono stati pubblicati sugli Acta Apostolicae Sedis la lettera di papa Bergoglio ai vescovi argentini della regione di Buenos Aires ed i criteri indicati da questi ultimi per l’accesso alla comunione da parte dei divorziati passati a nuove nozze, il tutto accompagnato da un rescritto ex audientia SS.mi del cardinale segretario di Stato, che, su approvazione del papa, considera questi due precedenti documenti come espressione del “magistero autentico” dell’attuale papa e, quindi, come magistero a cui prestare devoto ossequio di intelletto e volontà.
Parallelamente, il cardinale Brandmüller, uno dei quattro porporati dei dubia (gli altri sono Burke, Meisner e Caffarra, gli ultimi due nel frattempo scomparsi) in un articolo ha rilanciato l’idea, che anch’io avevo manifestato, di una professione di fede da parte del papa.
A questo proposito, don Nicola, anche alla luce delle dichiarazioni del cardinale Müller sulla necessità di una pubblica disputatio su Amoris laetitia e delle parole del segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Parolin, secondo il quale “all’interno della Chiesa è importante dialogare”, è realistico immaginare che dal papa possa arrivare una risposta e che si possa giungere a una sua professione di fede per dissipare dubbi e ombre?
L’unità autentica della Chiesa si fa nella verità. La Chiesa è stata posta dal Fondatore – Colui che ha detto: “Io sono la verità” – come “la colonna e il fondamento della verità” (1 Tim 3, 15).
Senza la verità non sussiste l’unità, e la carità sarebbe una finzione. L’idea che la Chiesa sia una federazione di comunità ecclesiali, un po’ come le comunità protestanti, renderebbe difficile al papa fare una professione di fede cattolica. Infatti, dopo i due ultimi sinodi, si sono fatte strada una fede e una morale che potremmo definire, almeno, a due velocità: prova ne sia che in taluni luoghi non è possibile dare la comunione ai divorziati risposati e in altri sì.
Non pochi vescovi e parroci, pertanto, si trovano in grande imbarazzo, a causa di una situazione pastorale instabile e confusa.
Stando così le cose, mi sembra realistico pensare a un “tavolo” all’interno della Chiesa, per capire che cosa sia cattolico e cosa non lo sia: un confronto dottrinale, dal quale soltanto dipende la pastorale.
Lo sviluppo dottrinale trae sempre giovamento dal dibattito. L’esempio viene da Joseph Ratzinger, che prima da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, poi da papa ha ricevuto vari teologi dissenzienti, confrontandosi con loro.
E se il confronto non ci sarà?
Temo che si approfondirà l’apostasia e si allargherà lo scisma di fatto.
Proprio il confronto razionale e caritatevole all’interno della Chiesa renderebbe necessaria la professione di fede del papa, con abiura, evidentemente, degli eventuali errori ed opinioni erronee dichiarate sino a quel momento, per riaffermare la fede cattolica quale termine di paragone, regola della fede di ogni cattolico.
Tra l’altro questa situazione è diventata ancor più urgente a seguito delle ultime novità introdotte dal papa, come quella relativa alla definizione di “antievangelicità” della pena capitale: definizione svolta, in maniera discutibile, mutando un articolo del Catechismo della Chiesa Cattolica secondo una visione decisamente storicistica, e che pone una serie di problemi.
Pure di coscienza. Tanto più che i precedenti catechismi, penso a quello Romano o Tridentino o a quello cosiddetto Maggiore di San Pio X, insegnavano la legittimità della pena capitale e la sua piena conformità alla Divina Rivelazione.
Il catechismo tridentino addirittura definiva la norma che consentiva all’autorità statale di comminare ad un reo, colpevole di gravi delitti, la giusta pena, non esclusa quella capitale, come “legge divina”.
Ed i problemi, dicevo, sono notevoli, perché o si ammette che la Chiesa abbia insegnato la legittimità di qualcosa di anti-evangelico praticamente da duemila anni o si deve ammettere che sia stato papa Bergoglio ad errare, ritenendo anti-evangelico ciò che, al contrario, è conforme almeno astrattamente alla Rivelazione.
La questione è molto delicata. Ma prima o poi dovrà porsi. E non solo per la pena capitale.
Molti si chiedono: se il papa si sente libero di cambiare un articolo del Catechismo secondo le mutate esigenze del popolo di Dio o la diversa sensibilità dell’uomo d’oggi, potrà farlo anche in altri punti, ancora più rilevanti?
È un interrogativo davvero inquietante e, del pari, una legittima preoccupazione quella di tenere indenne il depositum fidei dalle sensibilità contingenti della società di oggi o di domani.
Tornando alla domanda iniziale, sarebbe necessaria una professione simile a quella che Paolo VI fece nel 1968, al fine di riaffermare ciò che è cattolico, di fronte agli errori e alle eresie che si erano diffuse subito dopo il concilio Vaticano II, in specie a causa della pubblicazione del Catechismo olandese.
Nel nostro caso, però, si tratterebbe di riaffermare alcune verità sui sacramenti, sulla morale e sulla dottrina sociale della Chiesa, e parimenti rigettare quanto di dubbio o erroneo possa essersi diffuso, pure involontariamente, su tali temi.
Qualcuno ha osservato che l’iniziativa della Correctio, per quanto clamorosa, non è una novità, perché già ai tempi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, e ancor prima di Paolo VI, vi furono manifesti e petizioni di teologi, chierici e laici, sia a carattere individuale sia organizzati. Si trattò di prese di posizione di studiosi i quali, ritenendo che il Concilio Vaticano II, attraverso l’anti-dogmatismo o lo sviluppo disomogeneo del dogma, avesse introdotto una rottura con la Chiesa precedente, accusavano quei pontefici di centralismo e di non apertura alle istanze della modernità. Lei trova che si tratti davvero di un’analogia con quanto sta avvenendo oggi?
No, perché quello era un attacco non-cattolico al magistero cattolico. In modo speculare, altri teologi e laici, che nutrivano sospetti sul Concilio, manifestavano la contrarietà ad ogni sana innovazione.
In entrambi i casi si trattò di proteste e non di correzione. Ora i primi, collocati nei posti chiave dell’establishment ecclesiastico, tacciono o conducono una difesa d’ufficio, senza mai entrare nel merito delle eresie che vengono contestate, in particolare, all’esortazione apostolica Amoris laetitia.
Occorre ricordare che San Pio X, nell’enciclica Pascendi, avverte che non confessare mai chiaramente la propria eresia, è il comportamento tipico dei modernisti, perché in tal modo possono occultarsi all’interno della Chiesa.
Ma perché secondo lei sarebbe auspicabile una professione di fede? E se il papa, come tutto lascia pensare, non la farà, che cosa potrebbe succedere?
Nel Decreto di Graziano (pars I, dist. 40, cap.VI) vi è questo canone: “Nessun mortale avrà la presunzione di parlare di colpa del papa, poiché, incaricato di giudicare tutti, egli non dev’essere giudicato da alcuno, a meno che non devii dalla fede”.
L’allontanamento e la deviazione dalla fede si chiama eresia, parola che viene dal greco “airesis” e vuol dire scelta e assolutizzazione di una verità, minimizzando o negando le altre che sono nel novero delle verità cattoliche (ricordo a questo proposito che von Balthasar scrisse un saggio intitolato “La verità è sinfonica”).
Ovviamente la deviazione deve essere manifesta e pubblica.
E in caso di eresia manifesta, secondo san Roberto Bellarmino, il papa può essere giudicato. Ricordo che Bellarmino fu anche prefetto del Sant’Uffizio, figura che ha proprio la funzione di sorvegliare sul rispetto dell’ortodossia della fede da parte di tutti, compreso il papa, il quale peraltro è il primo a dover svolgere tale funzione di controllo.
Il papa è chiamato dal Signore a diffondere la fede cattolica, ma per farlo deve dimostrarsi capace di difenderla.
Gli ortodossi – i cristiani d’Oriente separati da Roma – si chiamano così proprio perché hanno sottolineato il primato della vera fede quale condizione della vera Chiesa.
Altrimenti la Chiesa cessa di essere colonna e fondamento della verità. Di conseguenza, chi non difende la vera fede decade da ogni incarico ecclesiastico, patriarcale, eparchiale eccetera.
Scusi don Nicola, sta dicendo che in caso di eresia, proprio come un cristiano eretico cessa di essere membro della Chiesa, anche il papa cessa di essere papa e capo del corpo ecclesiale, e perde ogni giurisdizione?
Sì, l’eresia intacca la fede e la condizione di membro della Chiesa, che sono la radice e il fondamento della giurisdizione.
Questo è il pensiero dei padri della Chiesa, in specie di Cipriano, che ebbe a che fare con Novaziano, antipapa durante il pontificato di papa Cornelio (cfr Lib. 4, ep. 2).
Ogni fedele, compreso il papa, con l’eresia si separa dall’unità della Chiesa. È noto che il papa è nello stesso tempo membro e parte della Chiesa, perché la gerarchia è all’interno e non sopra la Chiesa, come affermato in Lumen gentium (n. 18).
Di fronte a questa eventualità, così grave per la fede, alcuni cardinali, o anche il clero romano o il sinodo romano, potrebbero ammonire il papa con la correzione fraterna, potrebbero “resistergli in faccia” come fece Paolo con Pietro ad Antiochia; potrebbero confutarlo e, se necessario, interpellarlo al fine di spingerlo a ravvedersi. In caso di pertinacia del papa nell’errore, bisogna prendere le distanze da lui, in conformità con ciò che dice l’Apostolo (cfr. Tito 3,10-11).
Inoltre la sua eresia e la sua contumacia andrebbero dichiarate pubblicamente, perché egli non provochi danno agli altri e tutti possano premunirsi.
Nel momento in cui l’eresia fosse notoria e resa pubblica, il papa perderebbe ipso facto il pontificato.
Per la teologia e il diritto canonico, pertinace è l’eretico che mette in dubbio una verità di fede coscientemente e volontariamente, cioè con la piena coscienza che tale verità sia un dogma e con la piena adesione della volontà. Ricordo che si può avere ostinazione o pertinacia in un peccato d’eresia commesso anche solo per debolezza.
Inoltre, se il papa non volesse mantenere l’unione e la comunione con l’intero corpo della Chiesa, come quando tentasse di scomunicare tutta la Chiesa o di sovvertire i riti liturgici fondati sulla tradizione apostolica, potrebbe essere scismatico.
Se il papa non si comporta da papa e capo della Chiesa, né la Chiesa è in lui né lui è nella Chiesa. Disobbedendo alla legge di Cristo, oppure ordinando ciò che è contrario al diritto naturale o divino, ciò che è stato ordinato universalmente dai concili o dalla Sede apostolica, il papa si separa da Cristo, che è il capo principale della Chiesa e in rapporto al quale si costituisce l’unità ecclesiale.
Papa Innocenzo III dice che si deve obbedire al papa in tutto, fino a che egli non si rivolti contro l’ordine universale della Chiesa: in tal caso, a meno che non sussista una ragionevole causa, non va seguito, perché, comportandosi così, non è più soggetto a Cristo e quindi si separa dal corpo della Chiesa.
Non nascondo, però, che quanto indicato, sebbene sia limpido e liscio nella teoria, nella pratica incontra non poche difficoltà; inconvenienti anche di carattere canonistico».
Ammettiamo, comunque, che si possa arrivare a un tal punto. Quali le conseguenze per la fede e per la Chiesa?
Chi vuol essere papa non può rinnegare la verità cattolica, anzi, deve aderirvi in toto se vuole rivendicare l’autorità magisteriale.
Vale infatti ciò che Ratzinger scriveva anni fa, sottolineando che il papa non può “imporre una propria opinione”, ma deve “richiamare proprio il fatto che la Chiesa non può fare ciò che vuole e che anch’egli, anzi proprio lui, non ha facoltà di farlo”, perché “in materia di fede e di sacramenti, come circa i problemi fondamentali della morale”, la Chiesa può solo “acconsentire alla volontà di Cristo”.
Nel caso di opposizione tra il testo di un documento pontificio e altre testimonianze della Tradizione, è lecito a un fedele istruito, e che abbia accuratamente studiato la questione, sospendere o negare il suo assenso al documento stesso.
Nel caso di Amoris laetitia c’è chi ha dimostrato che il documento è farraginoso e contraddittorio in non pochi punti, e le citazioni di san Tommaso sono apposte a proposizioni che sostengono cose contrarie al pensiero dell’Angelico.
Si comprende, quindi, quanto ebbe a scrivere Joseph Ratzinger: “Al contrario, sarà possibile e necessaria una critica a pronunciamenti papali, nella misura in cui manca a essi la copertura nella Scrittura e nel Credo, nella fede della Chiesa universale. Dove non esiste né l’unanimità della Chiesa universale né una chiara testimonianza delle fonti, là non è possibile una decisione impegnante e vincolante; se essa avvenisse formalmente, le mancherebbero le condizioni indispensabili e si dovrebbe perciò sollevare il problema circa la sua legittimità” (Joseph Ratzinger, Fede, ragione, verità e amore, Lindau, 2009, p. 400).
In breve, se il papa non custodisce la dottrina, non può esigere la disciplina; se poi perdesse la fede cattolica, decadrebbe dalla Sede apostolica.
“Il potere delle chiavi di Pietro non si estende fino al punto che il Sommo Pontefice possa dichiarare ‘non peccato’ quello che è peccato, oppure ‘peccato’ quello che non è peccato. Ciò sarebbe, infatti, chiamare male il bene, e bene il male, la qualcosa è, sempre è stata e sarà lontanissima da colui che è il Capo della Chiesa, colonna e fondamento della verità” (cfr. Roberto Bellarmino, De Romano Pontifice, lib. IV cap. VI, p. 214, e anche Lumen gentium, n. 25).
Di conseguenza il papa che, quale persona privata, si identificasse con l’eresia, non sarebbe più Sommo Pontefice o Vicario di Cristo sulla terra.
Lei stesso, però, ha detto che ci sono difficoltà pratiche non di poco conto…
Per un papa, in effetti, vige una sorta di immunità da giurisdizione.
Per cui, sebbene in teoria si dica che i cardinali possono accertare la sua eresia, certamente nella pratica la cosa diventerebbe difficoltosa, a causa del fondamentale principio Prima sedes a nemine iudicatur, ripreso dal can. 1404 c.i.c.
Nessuna chiesa, in quanto figlia, può giudicare la madre, cioè la Sede apostolica. Ancor meno alcuna pecora del gregge può ergersi a giudicare il proprio pastore.
Se guardiamo come è stato applicato questo principio nella storia della Chiesa, e del papato in particolare, notiamo che anche in caso di accusa di eresia, o addirittura vera e propria apostasia del papa, tutto si è concluso con un nulla di fatto.
Faccio un paio di esempi. Il primo che mi viene in mente è quello del papa Marcellino.
Questi, secondo le fonti antiche, in special modo il Liber Pontificalis, dinanzi alla grande persecuzione dioclezianea del IV secolo d.C., avrebbe ceduto ed avrebbe offerto incenso agli idoli, avrebbe cioè apostatato, sebbene ciò non sarebbe del tutto storicamente certo (per esempio, alcuni autori e storici della Chiesa antica, come Eusebio di Cesarea e Teodoreto di Ciro, negano questa circostanza, affermando che questo papa rifulse, invece, durante la Grande persecuzione).
A seguito di ciò, sarebbe stato convocato un sinodo a Sinuessa, località tra Roma e Capua, nei pressi dell’attuale Mondragone, nel 303 con lo scopo di accertare e dichiarare l’apostasia del papa. Ora, è vero che gli atti di questo sinodo sono considerati apocrifi e risalenti al VI secolo, tuttavia è indubbio che da essi emerge il chiaro rifiuto dei sinodali di accertare e condannare Marcellino per il suo atto di apostasia.
Anzi, i sinodali chiedono allo stesso papa di giudicare il suo gesto ed auto-comminarsi la giusta punizione, riconoscendo nei confronti del papa una sorta di immunità da giurisdizione, proprio per quel principio che ho sopra detto e cioè che la Prima Sede non può essere giudicata da nessuno.
Per la cronaca, Marcellino, comunque, pare si pentì del gesto, testimoniò la sua fede e morì martire. Per questo è venerato come papa e martire il 26 aprile.
Il secondo caso è quello di papa san Leone III e del suo famoso giuramento, rappresentato da Raffaello in un celebre affresco della Stanza dell’incendio di Borgo nelle celebri Stanze del Palazzo apostolico.
Vi compare il papa Leone III in abiti pontificali, che presta il suo giuramento sui Vangeli, dinanzi a Carlo Magno ed ad una folla di dignitari, laici ed ecclesiastici, ed al popolo di Dio, il 23 dicembre dell’anno 800, nella Basilica di San Pietro.
Il papa era accusato – sebbene le fonti antiche non siano molto precise al riguardo – di spergiuro ed adulterio (non si sa con chi) da parte dei nipoti del predecessore, papa Adriano I. Venuto a Roma Carlo Magno per mettere ordine tra coloro che appoggiavano il papa e gli oppositori, il papa, liberamente, “senza essere giudicato e corretto da nessuno, spontaneamente e volontariamente”, si purificò dinanzi a Dio delle colpe, dichiarando e professando la sua innocenza dalle accuse mossegli.
Il papa concluse: “Questo dichiaro spontaneamente per eliminare ogni sospetto: non già che ciò sia prescritto dai canoni, neppure che così io voglia creare un precedente ed imporre un tale uso nella santa Chiesa ai miei successori ed ai miei confratelli nell’episcopato”.
Nel dipinto di Raffaello compare una scritta: Dei non hominum est episcopos iudicare, cioè: Tocca a Dio, non agli uomini giudicare i vescovi.
Si tratta di un’allusione alla conferma, data nel 1516 dal Concilio Lateranense V, della bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, in cui si sanzionava il principio secondo il quale la responsabilità del pontefice è giudicabile solo da Dio.
Insomma, tante difficoltà pratiche…
Un’ulteriore difficoltà è, poi, nell’individuazione degli esatti contorni di un’eresia.
Guardi, a differenza del passato, la teologia non è più affidabile, ma è diventata una sorta di arena nella quale converge tutto ed il suo contrario.
Per cui, affermata una verità, vi sarà sempre qualcuno disposto a difendere l’esatto contrario. Come vede, ci sono non poche difficoltà pratiche, teologiche e giuridiche alla questione del giudizio del papa eretico.
Forse – e lo dico proprio da un punto di vista pratico – sarebbe più agevole esaminare e studiare più accuratamente la questione relativa alla validità giuridica della rinuncia di papa Benedetto XVI, se cioè essa sia piena o parziale (“a metà”, come qualcuno ha detto) o dubbia, giacché l’idea di una sorta di papato collegiale mi sembra decisamente contro il dettato evangelico.
Gesù non disse, infatti, “tibi dabo claves …” rivolgendosi a Pietro e ad Andrea, ma lo disse solo a Pietro! Ecco perché dico che, forse, uno studio approfondito sulla rinuncia potrebbe essere più utile e proficuo, nonché aiutare a superare problemi che oggi ci sembrano insormontabili.
È stato scritto: “Giungerà anche un tempo delle prove più difficili per la Chiesa. Cardinali si opporranno a cardinali e vescovi a vescovi. Satana si metterà in mezzo a loro. Anche a Roma ci saranno grandi cambiamenti” (Saverio Gaeta, Fatima, tutta la verità, 2017, p. 129).
E questo grande cambiamento, con papa Francesco, lo possiamo vedere in maniera palpabile, stante la chiara intenzione di segnare una linea di discontinuità o rottura con i precedenti pontificati.
Questa discontinuità – una rivoluzione – genera eresie, scismi e controversie di varia natura. Tutte, però, possono ricondursi al peccato.
E questo lo constatava già Origene: “Dove c’è il peccato, lì troviamo la molteplicità, lì gli scismi, lì le eresie, lì le controversie. Dove, invece, regna la virtù, lì c’è unità, lì comunione, grazie alle quali tutti i credenti erano un cuor solo e un’anima sola” (In Ezechielem homilia, 9,1, in Sources Chrétiennes 352, p. 296).
Anche la liturgia ha risentito di tutto ciò, e lei lo ha scritto più volte nei suoi libri…
Esatto. Si celebra come se Dio non fosse presente, un’animazione mondana.
Ma qui ci confortano le parole che sant’Atanasio di Alessandria rivolgeva ai cristiani che soffrivano sotto gli ariani: “Voi rimanete al di fuori dei luoghi di culto, ma la fede abita in voi.
Vediamo: che cosa è più importante, il luogo o la fede? La vera fede, ovviamente. Chi ha perso e chi ha vinto in questa lotta, chi mantiene la sede o chi osserva la fede? È vero, gli edifici sono buoni, quando vi è predicata la fede apostolica; essi sono santi, se tutto vi si svolge in modo santo…
Voi siete quelli che sono felici, voi che rimanete dentro la Chiesa per la vostra fede, che la mantenete salda nei fondamenti come sono giunti fino a voi dalla tradizione apostolica, e se qualche esecrabile gelosamente cerca di scuoterla in varie occasioni, non ha successo.
Essi sono quelli che si sono staccati da essa nella crisi attuale. Nessuno, mai, prevarrà contro la vostra fede, amati fratelli, e noi crediamo che Dio ci farà restituire un giorno le nostre chiese.
Quanto più i violenti cercano di occupare i luoghi di culto, tanto più essi si separano dalla Chiesa.
Essi sostengono che rappresentano la Chiesa, ma in realtà sono quelli che sono a loro volta espulsi da essa e vanno fuori strada” (Coll. Selecta SS. Eccl. Patrum. Caillu e Guillou, vol. 32, pp 411-412).
Preghiamo, però, che la Divina Provvidenza intervenga a favore della Chiesa, affinché non accada che possiamo trovarci dinanzi all’eventualità che ho descritto; lo auspicava, a meno di un mese dalla rinuncia di Benedetto XVI, anche l’insigne canonista gesuita padre Gianfranco Ghirlanda, al termine di un importante articolo (La Civiltà Cattolica, 2 marzo 2013).
In conclusione, possiamo dire che l’eresia non consiste solo nel diffondere dottrine false, ma anche nel tacere la verità sulla dottrina e sulla morale?
Certamente sì. Se a qualcuno desse fastidio il termine dottrina, usi il termine insegnamento, perché entrambi sono la traduzione del greco didachè. Dove manca la dottrina, vi sono problemi morali, come stiamo vedendo!
Quando il papa e i vescovi fanno questo, utilizzano il loro ufficio per distruggerlo. Dice sant’Agostino: pascono se stessi, cercano i propri interessi, non già gli interessi di Gesù Cristo, proclamano la sua parola ma per diffondere le loro idee.
Il nome di Gesù Cristo, diceva il cardinale Biffi, è diventato una scusa per parlare d’altro: migrazioni, ecologia eccetera. Così non siamo più unanimi nel parlare (1 Cor 1,10) e la Chiesa è divisa.
A proposito, si evitino ulteriori modifiche ai testi del messale romano in lingua italiana, in specie al Padre Nostro, perché produrrebbero ulteriori divisioni tra i fedeli.