11.12.2013 – «Nel cammino che la nostra Chiesa ha intrapreso quest’anno, abbiamo voluto invitare testimoni che ci aiutino a riflettere su cosa significhi evangelizzare la metropoli in questo tempo di cambiamenti profondo. Una Chiesa che su questo tema sta riflettendo è certamente quella di Vienna». È questo il motivo, per usare le parole del cardinale Scola, per il quale il cardinale Christoph Von Schönborn, dal 1995 Arcivescovo della capitale austriaca, è a Milano.
Il tema è certo di quelli che interessano e il Duomo gremito nelle tre grandi navate, nei transetti, con tanta gente che rimane in piedi o seduta persino sul pavimento di marmo gelido per l’intera serata di oltre un’ora e mezzo, lo testimonia.
Contestualizzato espressamente nella proposta pastorale “Il campo è il mondo” – così come sarà l’incontro del 26 febbraio con il cardinale Tagle, arcivescovo di Manila -, il dialogo si propone come un aprirsi al mondo, a diverse realtà ed esperienze, tutte collegate dal filo rosso del mutamento in atto e dell’evangelizzazione nella e della metropoli.
Non c’è dubbio che per raccontare ai fedeli laici il disagio e le sfide di oggi nella Chiesa non potesse esservi testimone migliore del cardinale Schönborn, per il suo ruolo centrale nell’episcopato mondiale e per la sua biografia: asceta, grande intellettuale di formazione benedettina, nato nel 1945, ordinato nel 1970, nel 1998 elevato alla porpora cardinalizia e presidente della Conferenza episcopale austriaca, autore di molti volumi – alcuni divenuti best-sellers -, segretario della Commissione redattrice del Catechismo della Chiesa Cattolica, amico personale di Joseph Ratzinger e del cardinale Scola fin dai tempi del lavoro nella rivista teologica Communio.
La riflessione prende avvio da tre termini con cui l’ospite definisce la sua diocesi e il cattolicesimo austriaco, sospeso «tra ferite, prospettive e speranze»: «La Chiesa di Vienna, che ha avuto una storia imperiale, ne ha conosciuto il crollo, i tempi della divisione e della guerra civile, il nazismo e solo dopo la seconda guerra mondiale ha vissuto una riconciliazione nazionale, per la quale ha molto lavorato». Certo, aggiunge Schönborn, «da anni vediamo una decrescita molto dolorosa». Come già nella mattinata nell’incontro con il clero ambrosiano, i numeri che l’Arcivescovo espone sono gravi.
Uno per tutti: «I cattolici in Austria sono pari al 38% e si va verso il 30, perdendo l’1% all’anno, con un pratica religiosa che a Vienna non va oltre il 5%». «Spesso chiedo ai giovani credenti che incontro: “Quanti siete nella tua classe?”.
Quasi sempre sento rispondere: “Io sono l’unico!”», spiega con franchezza il porporato viennese, che aggiunge, «L’ambiente non è ostile, ma indifferente. Ciò che dobbiamo chiederci è cosa diventerà la Chiesa nei prossimi venti o trent’anni, oltre le necessarie riforme concrete della rete parrocchiale».
Insomma, la questione urgente è più ampia di una riorganizzazione: si tratta della missione nel suo complesso. E qui Schönborn è molto chiaro: «Lo dico da autentico “sessantottino” (infatti ho 68 anni…): non si può vivere nella nostalgia di un passato che non tornerà più. Non avremo più l’Azione Cattolica degli Cinquanta, le grandi manifestazioni di quei decenni. La Chiesa sarà diversa, sarà missionaria».
L’esempio si fa subito concreto: «All’inizio del nuovo millennio, su iniziativa dell’allora arcivescovo di Parigi, cardinale Lustiger, abbiamo iniziato un cammino di cinque missioni cittadine in grandi città europee, ma non facciamoci illusioni. Occorre basarsi sull’esperienza, dobbiamo “scendere dall’alto cavallo”, come si dice da noi, e accettare l’umiliazione che viene, per esempio, dalla ferita tragica degli abusi sessuali (il predecessore stesso del Cardinale, che lo dice apertamente, ha dovuto lasciare l’incarico episcopale per accuse di pedofilia, ndr).
Non dobbiamo nasconderci, ma mettere al primo posto le vittime e non la reputazione della Chiesa o del Clero. Questa, penso, che sia l’unica scelta possibile per ritrovare una certa credibilità».
Eppure, pur in un travaglio così complesso, ciò che il Signore indica è ancora e sempre il dovere della missione: «Solo se riusciamo a rendere visibile che il Vangelo è Vangelo della misericordia si potrà fare evangelizzazione. Occorre “cambiare” lo sguardo. Papa Francesco, e Benedetto prima di lui, ci hanno detto di guardare prima alla persona, senza “incasellare” le singole situazioni. Dobbiamo chiedere “chi sei?” all’uomo».
Due i pericoli da fronteggiare: «I due estremi del liberalismo che accetta tutto, perdendo il profilo della vita cristiana, e del rigorismo, che vede solo la legge e non la persona umana: siamo tentati di vedere solo la zizzania e di dimenticare il buon seme». Ovvio, invece, che sia necessario, come indica anche il cardinale Scola nella Lettera pastorale, «fare il contrario».
Ancora si parla di un’esperienza realizzata nella diocesi di Vienna: «Abbiamo indetto assemblee diocesane e portato 1500 delegati nel Duomo di Santo Stefano, per essere una Chiesa capace di farsi “comunità di racconto”.
Non ci siamo fermati ai problemi, ma abbiamo approfondito ciò che fa Dio nella nostra vita. Abbiamo chiesto: “Dove nella vostra parrocchia si vede l’azione di Dio? Dove si vede la sua ombra?”. E questo “a microfono aperto”, perché tutti hanno avuto il diritto di parlare, senza alcuna censura. Facciamo poi alcuni tentativi di evangelizzazione diretta per le strade. Porre l’etichetta di nuova evangelizzazione a ogni azione nella vita parrocchiale o nelle associazioni può essere corretto, ma non basta: vi è un atto specifico “il faccia-a-faccia”, dove si sperimenta che Cristo è in mezzo a noi».
Parola di chi, anche come Cardinale, è presente di persona a quelli che definisce «momenti di evangelizzazione di strada», incontrando i suoi cittadini davanti alla Stazione centrale, alle sei del mattino, portando loro piccoli doni e sorrisi: «Non posso negare che, talvolta, vi sia in me stanchezza o timore, ma da queste iniziative torno sempre molto contento. Una gioia che non si spiega se non nella gioia di annunciare il Vangelo.
Questo non vuol dire che la prossima domenica le persone che ho avvicinato saranno in chiesa, ma comunque avranno ricevuto una piccola luce del Vangelo. Prima noi preti e voi tutti laici la ritroveremo, meglio sarà. Noi stessi, come vescovi, dobbiamo chiederci in che luoghi facciamo esperienza diretta di evangelizzazione, anche se ciò significa esporsi e ammettere i nostri errori, le nostre paure».
Poi il confronto diviene un dialogo, con le domande proposte da Alessandro Zaccuri, giornalista di Avvenire.
Come affrontare le nuove realtà, etnie, religioni che popolano le nostre città secolarizzate, andando appunto per le strade? «Senza paura – scandisce il Cardinale -. Indubbiamente vi è crisi demografica, decrescita dei cattolici, perché in Austria ognuno può rivolgersi al Tribunale e non essere più cristiano, ma è imprescindibile contare su Dio. Il Signore ci sorprende, come ha dimostrato nelle dimissioni di papa Benedetto e nell’elezione di Francesco. Per questo tutte le considerazioni sull’Europa trovano una risposta nella santità, la più grande sorpresa di sempre».
E, ancora, quale contributo possiamo dare come credenti alla società: basta la testimonianza o abbiamo bisogno delle strutture? «Dobbiamo chiedere ai laici la testimonianza personale e l’impegno strutturale, politico, sociale, che non sono due realtà in opposizione. Non vi è esclusività nel pensiero cattolico. Si pensa spesso che i movimenti siano “per la pietà” e l’Azione cattolica “per la società”. Non è così.
La storia dei grandi movimenti religiosi è sempre stata edificata da carisma e istituzione. La Chiesa, in se stessa, è carismatica e istituzionale. Anche quando le strutture ecclesiali paiono prevalere, ritengo che la via giusta sia unire l’approfondimento spirituale, la Lectio divina, l’ascolto della Scrittura e il lavoro istituzionale».
Appunto come stanno sperimentando nella diocesi viennese, nella quale domenica scorsa è iniziato l’Anno della preghiera, dopo quello della Fede, «non per fare altre discussioni, ma per prenderci tempo per pregare». Solo così, suggerisce l’ospite, «anche come minoranza, con argomenti convincenti, fede e tanta iniziativa istituzionale, si possono portare avanti le nostre posizioni sull’aborto o sull’eutanasia».
Il pensiero va alla Lettera a Diogneto, «che dice che ogni terra straniera è una patria e ogni patria, terra straniera. Il primo punto è dimostrare la simpatia per la gente con la quale viviamo, una simpatia profonda. Se non portiamo nel cuore un vero amore, una condivisione, non si può annunciare il Vangelo. E, allo stesso tempo, bisogna accettare di essere stranieri. Ricordiamoci che abbiamo tanti parrocchiani in Europa, i profughi, gli immigrati, i rifugiati…».
La parrocchia è il luogo per eccellenza della prossimità, della concretezza, anche se vive le sue stanchezze. «A 14 anni dicevo a mia madre che la mia casa era la parrocchia – ricorda – e credo che la parrocchia rimarrà sempre il luogo privilegiato per la vita della Chiesa, anche se i movimenti sono importantissimi.
Tuttavia, la parrocchia cambia e dobbiamo accettarlo: quella del Medioevo, dell’Ottocento o degli anni Cinquanta sono molto differenti, ma rimane un punto nodale, perché è un popolo in microcosmo, di giovani, anziani, lavoratori, gente diversa».
Poi, il tema del sacerdozio comune dei battezzati e il suo significato… «Dovete essere consapevoli che siete un sacerdozio regale, come si dice già nel Primo Testamento. In questo, infatti, aiuta molto la comprensione dell’ebraismo, che vive il sacerdozio regale di tutto il popolo, il cui compito è portare la benedizione (berakah) di Dio sul mondo.
Riscopriamo il ruolo di benedizione dei laici, dei battezzati. Lo sguardo sugli altri deve essere una benedizione. Questo è il ministero sacerdotale del popolo di Dio, benedire il mondo. Come esplica Lumen Gentium al numero 10, vivere il nostro sacerdozio battesimale vuol dire vivere la nostra vocazione alla santità».
Infine la riflessione sulle tante schiavitù odierne… «Abbiamo lo strumento straordinario delle nostre Caritas. Come cristiani dobbiamo essere voce dei poveri, dei “senza voce”, lavorare alla giustizia delle legislazioni, dello Stato sociale.
Quando ero giovane, si diceva: “Bisogna cambiare tutto”. Ma era ideologia, perché l’illusione di cambiare il sistema era spesso un alibi per non mutare niente. Invece la carità è immediata e ha il volto del nostro prossimo. L’impoverimento è una realtà che tocca anzitutto le donne, madri sole, le famiglie numerose. Noi siamo una delle Nazioni più ricche in Europa, ma il lavoro della Caritas ci dimostra che la povertà cresce e questo ci deve preoccupare.
Pur vivendo un’esperienza dolorosa di cristiani in Europa, se i cristiani lavorano con gente di buona volontà e con argomenti e un atteggiamento convincente, non è escluso che le cose cambino, anche su argomenti come l’aborto, la distruzione degli embrioni, l’eutanasia. Dobbiamo essere molto più consapevoli del nostro ruolo, scriviamo ai giornali, telefoniamo alla televisione: facciamolo non con rabbia, ma per la simpatia che abbiamo per l’altro».
Fonte: sito della Diocesi di Milano