Il cardinale Carlo Maria Martini è stato punto di riferimento anche per molti non credenti, mentre da più parti lo si considerava, in modo riduttivo, simbolo di una Chiesa “progressista”. Su questi aspetti si sofferma, al microfono di Fabio Colagrande, il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura:
R. – Questi schemi che si adottano effettivamente sono come degli stampi freddi che gelano l’incandescenza delle figure, delle situazioni, dei contesti. E’ fuor di dubbio che lo sguardo di Martini era certamente tendenzialmente uno sguardo verso l’oltre, che cercava di individuare i percorsi futuri. In questo senso, si può dire veramente che la sua funzione fosse “profetica”, e profeta di per sé è colui che è ben piantato nella Storia e ne intuisce i movimenti, le tensioni… Ecco, forse l’aspetto principale di questa definizione che viene data è invece un aspetto che dovrebbe essere un po’ di tutti i credenti ed i pastori, cioè la capacità di riuscire a individuare, e ad annodare come in una sorta di serie continua, le complessità delle situazioni. Qualche volta si diceva, per esempio, che Martini faceva delle dichiarazioni che erano in contrasto o, comunque, che erano un po’ oltre rispetto alla dottrina: le dichiarazioni, per esempio, su bioetica o su problemi di questo genere… In realtà, egli aveva una fede direi quasi rocciosa che però era estremamente attenta al fatto che i volti, la complessità della realtà, hanno tanti altri aspetti che devono essere considerati. Ecco, in questa luce credo si possa dire che il suo era uno sguardo che andava “oltre”.
D. – Nel telegramma di cordoglio per la morte del cardinale Martini, il Papa sottolinea in maniera particolare il servizio da lui reso alla Parola di Dio, “aprendo sempre più alla comunità ecclesiale i tesori della Sacra Scrittura”…
R. – Devo dire che questo è stato proprio il suo merito più tipico, quasi. Anche nei discorsi di Sant’Ambrogio, che ogni anno rivolgeva alla città di Milano in occasione della festa del Patrono, aveva sempre la capacità di partire dalla realtà, di mirare all’eterno camminando nel tempo, ma proprio mirando all’eterno, e lì c’era sempre la lampada accesa della Parola. Non per nulla, appunto, è stato fatto notare che anche il Papa ha citato alcune volte soprattutto la sua esperienza più significativa, che è stata quella della lectio divina biblica nell’interno del Duomo, irradiata poi nelle varie parrocchie e comunità di questa immensa diocesi. Quindi, direi che questo è proprio un tratto estremamente significativo e fondamentale, non perché era biblista ma perché in pratica faceva un po’ come i Padri della Chiesa, che avevano due caratteristiche: non parlavano “della” Bibbia, ma parlavano “la” Bibbia, usandola quasi in filigrana. La seconda caratteristica è che lui ha pubblicato molti libri, ma molti dei suoi libri sono effettivamente frutto del parlato, sono frutti orali – come capitava spesso ai Padri – dove altri raccoglievano il messaggio che veniva dato, sempre attorno alla Parola.
Fonte: Radio Vaticana