Comodamente rilassata in un’accogliente poltrona in casa di amici, stavo sfogliando pigramente il settimanale “Grazia” di Mondadori, quello datato 28 marzo 2013, quando una rubrica ha sollecitato la mia attenzione: un approfondimento su un caso di malasanità.
Risvegliate subito le mie impoltronite facoltà intellettive, mi sono accinta a scoprire un altro episodio di inefficienza, imperizia o, peggio ancora, di incapacità professionale ai danni di qualche malcapitato paziente.
Ma quale non è stato il mio stupore nel leggere che tutto lo sdegno dell’articolista era rivolto nientemeno che verso la mancanza di ostetriche e medici abortisti all’Ospedale S. Paolo di Bari!
E se un caso simile si estendesse anche ad altre strutture sanitarie – si domandava preoccupata la giornalista Marika Surace – come faranno le donne che hanno diritto all’applicazione della legge 194?
Sì perché, apprendiamo dall’articolo, il Ministero della Salute (Salute non Sanità, signora Surace) avrebbe comunicato che ormai il 69% dei ginecologi italiani sono obiettori. Ma il dato sarebbe sottostimato perché, secondo associazioni come la Laiga (Libera associazione italiana ginecologi) la percentuale avrebbe raggiunto l’80%.
Come non sodalizzare con l’amarezza che incombe sulla direttrice sanitaria della Asl di Bari per la difficoltà in cui si trovano le donne della città?
Invero per sollevare il suo spirito affranto la direzione “strategica”, insieme a quella sanitaria, ha individuato la soluzione presso un ospedale distante pochi chilometri, con trenta ore settimanali messe a disposizione da un filantropico (si fa per dire) ginecologo non obiettore.
Contenta, allora, la direttrice sanitaria dell’Asl di Bari? Ma nemmeno per idea: “Con tutto il rispetto per la libera scelta morale dei medici” – afferma decisa – “bisogna ricordare che l’aborto volontario rimane un diritto sancito e che è il frutto di una decisione sofferta. Ecco perché è fondamentale che, in un momento così difficile, sia garantito il supporto sanitario”.
Questo sì che è parlar come si deve in difesa dei diritti delle donne!
Quello però di cui la direttrice dell’Asl di Bari non tiene conto è che in Italia, oggi e speriamo anche domani, i diritti non sono l’esclusiva di un’unica categoria, perché accanto a quelli delle donne che vogliono abortire esistono anche i diritti dei medici e delle ostetriche a non vedersi ogni giorno davanti agli occhi le gambine, i piedini, le testine, le manine, e quant’altro forma un feto, maciullati da strumenti di morte. Ed esiste anche il diritto a non possedere ogni giorno la disponibilità ad assistere e curare coloro che quelle morti hanno preteso a furor di legge.
Esisterebbero poi anche i diritti dei bambini a non essere concepiti senza essere desiderati, a non essere ammazzati là dove dovrebbero essere protetti da chi vuole ammazzarli e a non finire in un catino dei rifiuti ospedalieri per poi essere bruciati.
Oggi nessuna donna, a meno di una violenza subita (ma sono casi rarissimi), può in buona fede affermare di aver agito senza sapere che rischiava di concepire un bambino, perché tutti ormai sanno che i bimbi non nascono sotto i cavoli e non li porta la cicogna.
Sarebbe quindi meglio per la Asl di Bari ideare una bella campagna informativa con cui convincere le potenziali abortiste che il momento così difficile per cui richiederanno, dopo, l’assistenza sanitaria se lo devono risolvere prima, da sole o in coppia.
La buona sanità e le direzioni strategiche a questo dovrebbero servire, così non ci sarebbero più i casi superficialmente definiti di malasanità.
Ma è questione di punti di vista.
Ester Consalvi
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