L’ordine d’arresto per Vladimir Putin per crimini di guerra emesso dalla Corte Penale Internazionale (CPI) è stato definito “giustificato” dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden ed è stato accolto con favore e persino con entusiasmo in diverse nazioni europee.
Resta il dubbio però se i diversi leader e ministri che si sono espressi in tal senso in Occidente abbiano la reale percezione del significato e delle possibili conseguenze di una iniziativa giuridica che rischia di allontanare definitivamente ogni ipotesi di negoziato per far cessare la guerra in Ucraina, allarga il fossato che separa la Russia dall’Occidente e avvicina ulteriormente la possibile escalation del conflitto.
Trattare il leader di una grande potenza nucleare, membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite quale è la Russia, alla stregua di un criminale avrà conseguenze gravi, specie per l’Europa, anche perché buon senso vorrebbe di non cercare con insistenza di alzare il livello del confronto con la Russia se non si ha quanto meno la certezza di essere pronti ad affrontarlo magari anche con una ragionevole possibilità di vincerlo.
Sul piano giuridico il mandato d’arresto della CPI appare per certi versi grottesco. Non solo perché i processi di Norimberga si fanno eventualmente (anche per prudenza) ai nemici già vinti, a guerra finita. A meno che non si voglia considerare Vladimir Putin alla stessa stregua del sudanese Bashir o del libico Gheddafi, leader di nazioni certo meno influenti della Russia, incriminati dalla CPI solo quando gli Stati Uniti avevano deciso di toglierli di mezzo e il cui destino appariva segnato, mentre la sconfitta e la “liquidazione” di Putin oggi non può certo venir data per scontata.
Non a caso la stessa Corte non ha mai dato seguito con indagini e incriminazioni alle pur circostanziate accuse di cumini di guerra di cui vennero accusati gli anglo-americani in Iraq e Afghanistan. Se la pretesa della CPI dell’Aja è esercitare una giustizia internazionale sui crimini di guerra allora deve valere per tutti e non può essere solo strumento dei vincitori sui vinti o utile a esercitare pressioni a favore di un belligerante sull’altro.
In ogni guerra tutti i belligeranti sono esposti al rischio di simili accuse e proprio per mettersi al riparo da ogni rischio di incriminazione molte nazioni non hanno sottoscritto lo Statuto di Roma con cui nel 2002 è stata istituita la CPI (che non è un organismo delle Nazioni Unite), riconosciuta da 123 stati ma non da molti altri inclusi Stati Uniti, Russia, Cina, Israele, mentre l’Ucraina aveva aderito ma poi non ha mai ratificato la sua adesione.
Grottesco quindi che in USA e Ucraina si esulti per un mandato emesso da una corte che questi stessi stati si guardano bene dal riconoscere, ma ancora più grottesco è che a chiedere l’arresto di Putin sia stato il capo procuratore della CPI, il britannico Karim Khan, e a concederlo il presidente della CPI, il magistrato polacco Piotr Hofmansky. Entrambe figure la cui nazionalità è in cima alla classifica dell’ostilità nei confronti della Russia e di Putin. Che si tratti quindi di un mandato d’arresto dal valore squisitamente politico non vi è alcun dubbio come dimostra anche il tenore delle accuse.
Quanto ai crimini di guerra non c’è dubbio che nel conflitto in corso da 13 mesi (e da nove anni) ne siano stati compiuti dai russi come dagli ucraini. Come accade del resto in tutte le guerre e specie in quelle civili che dividono in due lo stesso popolo come è accaduto nella ex Jugoslavia e come accade dal 2014 in Ucraina.
Lo scorso anno Amnesty International documentò con un report dettagliato un numero consistente di crimini di guerra compiuti dalle truppe di Kiev in Donbass ma nessuna corte internazionale indagò né emise mandati d’arresto per Zelensky o esponenti politici e militari ucraini. Anzi, politica e media imbastirono su due piedi un “processo” contro Amnesty International che aveva osato criticare l’uso dei civili del Donbass come scudo per gli schieramenti di truppe e artiglieria ucraini in mezzo a case e scuole.
Nessuna reazione dai soloni del diritto internazionale neppure di fronte alle immagini di prigionieri russi feriti a colpi di kalashnikov dopo la resa o a quelli dei soldati di Mosca feriti sul campo di battaglia e giustiziati con raffiche alla testa dai militari di Kiev, mentre in Europa da mesi si invocano (lo fa con cadenza regolare il presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen) processi contro Putin e gli esponenti del governo russo.
L’accusa di rapimento di minori e deportazione della popolazione ucraina in Russia mostra una volta di più come la CPI abbia recepito sulla vicenda esclusivamente le valutazioni di Kiev (che ha fornito prove unilaterali di 600 casi di deportazione di bambini), che comprensibilmente ha sempre negato vi sia una parte della popolazione ucraina schierata con i russi per non dover ammettere che questo conflitto è anche, fin dal suo scoppio nel 2014, una guerra civile. Termine il cui utilizzo non a caso viene punito col carcere dalle leggi di Kiev.
I russi sostengono invece di aver evacuato civili e soprattutto minori per sottrarli alla guerra e del resto moltissimi bambini, donne e anziani vennero portati in Russia, soprattutto a Rostov e in altre regioni di confine, fin dall’inizio del conflitto in Donbass, nel 2014. Strano che per nove anni nessuna corte internazionale abbia rilevato gli estremi di reato per contestare a Putin deportazioni di massa e rapimenti di minori.
Innegabile che in questa guerra, proprio per la sua natura anche “civile”, il controllo e il consenso della popolazione rientrino tra gli obiettivi dei due belligeranti ma non si può neppure negare che la Russia sia oggi la nazione che ospita il maggior numero di profughi ucraini ed è difficile ritenere che milioni di ucraini che hanno trovato rifugio in Russia siano stati deportati.
I più recenti dati dell’Alto commissariato dell’ONU per i Rifugiati (UNHCR) riferiscono che la Russia ospita il numero più alto di rifugiati ucraini, quasi 3 milioni, cioè quasi il doppio di quanti ne ospiti la Polonia, nazione al secondo posto nella classifica dell’accoglienza ai profughi ucraini.
Eppure, ci piaccia o meno, non è difficile notare che nei territori ucraini in mano ai russi e ai loro alleati vivono molti ucraini fedeli a Mosca, come a Mariupol dove sabato Putin ha visitato le nuove aree residenziali costruite dopo la lunga battaglia dello scorso anno, o che al fianco delle truppe di Mosca combattono almeno 80 mila ucraini delle regioni orientali.
Ancora più difficile non fare caso (anche se i media da noi ne parlano poco) che migliaia di civili preferiscono restare nelle cittadine contese lungo la prima linea degli 800 chilometri di fronte nella guerra in Ucraina.
Persone che rischiano la vita tra bombardamenti e combattimenti, che sopravvivono in scantinati e che rifiutano l’evacuazione, in parte per non lasciare le proprie case ma in parte anche perché attendono l’arrivo delle truppe russe. A Bakhmut, come in altre aree del fronte dove i russi sono all’offensiva, la polizia ucraina sta attuando evacuazioni forzate di civili, trasferiti a ovest contro la loro volontà. Eppure nessuna corte sembra pronta a definirle deportazioni.
Molti negli USA evidenziano l’errore dell’Amministrazione Biden nel sostenere l’iniziativa di una corte non riconosciuta da Washington e che potrebbe domani puntare il dito contro gli Stati Uniti, altri sottolineano che il mandato di arresto viene annunciato alla vigilia della visita a Mosca del leader cinese Xi Jinping con il chiaro obiettivo di indebolire il presidente russo nel vertice bilaterale.
Non si può escludere che tra gli obiettivi politici del mandato di arresto vi sia proprio quello di isolare Putin e di indurre i vertici di Mosca a rimuoverlo dal Cremlino trasformandolo nel capro espiatorio del conflitto in Ucraina.
Una scommessa rischiosa per almeno due ragioni. Innanzitutto il mandato di arresto potrebbe rafforzare i consensi intorno a Putin confermando ulteriormente, dopo i massicci aiuti militari dei paesi NATO a Kiev, la narrazione del Cremlino che dipinge questo conflitto come una “nuova guerra patriottica” necessaria per rispondere alla minaccia dell’Occidente che intende isolare e sconfiggere la Russia.
Una valutazione che allontanerà ogni ipotesi di soluzione negoziata della guerra. Inoltre, considerando quali esponenti di spicco siano emersi in seguito al conflitto in Ucraina, non vi sono indizi utili a ritenere che un eventuale successore di Putin sia più moderato o più incline ad accettare una ritirata dai fronti ucraini che a Mosca avrebbe l’amaro sapore della sconfitta. Semmai è vero il contrario.
Gianandrea Gaiani