È la storia ma anche l’avventura umana, controversa e avvincente, del gesuita Luigi (al secolo Prospero) Taparelli D’Azeglio (1793-1862), direttore e co-fondatore assieme a Carlo Maria Curci de
La Civiltà Cattolica; un cognome ingombrante nella storia del Risorgimento e della nobiltà piemontese, perché sarà l’unico dei D’Azeglio (i fratelli Massimo e Roberto saranno senatori del Regno d’Italia) a contrapporsi con vivaci dibattiti pubblici, libelli, saggi alla causa nazionale e a simpatizzare solo per un breve periodo della sua vita per il movimento neoguelfo teorizzato da Vincenzo Gioberti.Ora, a 150 anni dalla morte – che ricorrono esattamente oggi – questo gesuita figlio del suo tempo, imbevuto delle letture di Joseph De Maistre, profondo assertore dell’assolutismo cattolico e dell’
Ancien Regime, rimane vivo per l’attualità del pensiero di filosofo, giurista e polemista agguerrito («la penna più acuta della
Civiltà Cattolica») e anche per le idee realizzate.A lui si deve per esempio il ritorno nelle università ecclesiastiche dello studio del tomismo e della scolastica (per anni sarà rettore del prestigioso Collegio Romano, la futura Gregoriana); sempre a lui si deve nel 1843 la pubblicazione di un testo fondamentale, il
Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, che farà epoca nel suo tempo e verrà ancora additato da papa Pio XI come libro da comodino, quasi di culto, raccomandato dal Pontefice brianzolo ai giovani universitari assieme alle opere di Manzoni e di san Tommaso d’Aquino. Non è forse un caso che, secondo molti studiosi, l’insegnamento di padre Taparelli D’Azeglio come i suoi saggi filosofici abbiano influenzato, anni dopo, la stesura delle encicliche
Aeterni Patris e
Rerum novarumdi Leone XIII; il termine di «giustizia sociale» fu infatti coniato per primo dall’austero gesuita torinese, che per la modernità del suo pensiero nel campo del diritto è stato considerato pure, sul finire degli anni Venti, un «precursore della Società delle Nazioni».Senza omettere di accennare a una sua invenzione (brevettata nel 1854 e sostenuta economicamente dal fratello, il futuro statista piemontese Massimo D’Azeglio) nel campo musicale: il violincembalo, uno strumento che – strano a immaginarsi – riscosse le lodi del grande Franz Liszt. Sarà però la questione del Risorgimento a dividere in fazioni avverse e a incendiare gli animi e a rappresentare – come ha ben scritto lo storico gesuita Pietro Pirri – una «causa di famiglia»: sacerdoti della “reazionaria” Compagnia di Gesù, negli stessi anni di D’Azeglio, erano – solo per citare i casi più famosi – Francesco Pellico (fratello di Silvio), Giuseppe Bixio (fratello di Nino) e Luigi Ricasoli (cugino di Bettino)… Le battaglie polemiche di Taparelli si diressero prima dei fatidici moti del 1848 a duri confronti sul tema spinoso del liberalismo, della questione nazionale ma anche della religione con grandi personalità del suo tempo: Antonio Rosmini, il cugino Cesare Balbo e non da ultimo il grande Vincenzo Gioberti; la polemica più dura e accesa sarà quella combattuta con quest’ultimo, autore tra l’altro di un libro molto critico verso l’amato Ordine e il suo reale potere in Italia:
Il Gesuita moderno.A padre Taparelli, comunque, non mancherà mai la stima e l’onore delle armi del grande filosofo e abate piemontese, che lo definirà «una delle menti più acute d’Italia». Ma è soprattutto con la sua famiglia di origine che padre Luigi ebbe e in un certo senso coltivò gli scontri più duri (sia in forma pubblica che privata), seguiti a volte da fraterne riappacificazioni, in particolare con i fratelli Massimo e Roberto; la loro affettuosa unione non verrà mai meno, come dimostrano ancora oggi le belle pagine che Massimo dedica al suo «gesuita» nei
Miei ricordi e i loro carteggi. A scatenare la prima frizione in famiglia sarà nel 1846 la dura condanna da parte di Luigi di un opuscolo a firma di Massimo,
Gli ultimi casi di Romagna, inneggiante all’insurrezione contro il potere costituito; ma ad accentuare le differenze di vedute politiche nei fratelli D’Azeglio verrà, l’anno dopo, la pubblicazione da parte del gesuita dello scritto «Nazionalità», letto e interpretato come un atto di compiacenza e di legittimazione alla presenza straniera dell’Austria sul suolo della Penisola.
Amaro sarà il commento di Massimo: «Il padre Taparelli me l’ha fatta grossa». Nello stesso anno 1847, i due fratelli Massimo e Luigi si incontreranno a Roma e il futuro statista piemontese tenterà invano di avvicinare alla causa nazionale il religioso, introducendolo nei circoli risorgimentali capitolini, allora animati dal bolognese Marco Minghetti. Strano ad immaginarsi, ma saranno invece i moti del 1848 ad avvicinare i tre fratelli D’Azeglio lungo una comune direttrice: padre Luigi si troverà assieme ai confratelli gesuiti nel gennaio di quell’anno a Palermo a soccorrere e solidarizzare con gli insorti contro il potere borbonico. Un entusiasmo che contagerà – anche se per pochi giorni – l’animo dell’austero figlio di sant’Ignazio: «Il Comitato ci ha dimostrato gratitudine, e per la strada molta gente grida “Viva i Gesuiti”. È la prima volta, io credo, che una rivoluzione comincia con questo grido…».
Ma la fondazione, per volere di Pio IX, a Napoli e poi a Roma della rivista della Compagnia La Civiltà Cattolica segnerà il vero spartiacque tra i fratelli D’Azeglio. Dalle colonne del prestigioso quindicinale, di cui era diventato direttore, Taparelli si scaglierà contro gli eccessi del liberalismo e non esiterà a condannare pubblicamente il fratello Massimo, allora presidente del Consiglio del Regno di Sardegna, per aver sostenuto nel 1850 la promulgazione delle leggi Siccardi che abolivano il foro ecclesiastico e procuravano la confisca dei beni ecclesiastici. Sono gli ultimi anni di vita di Taparelli D’Azeglio, ormai cieco, spesi per difendere il papa Pio IX e a stigmatizzare le politiche anti-ecclesiastiche del Piemonte del conte di Cavour.
A 150 anni dalla sua morte viene spontaneo domandarsi se questo raffinato gesuita fu, a detta di molti storici come Pietro Pirri e Marcello Craveri, «un vinto del Risorgimento», un «monumento anacronistico del suo tempo» o forse – come ha scritto Gabriele De Rosa – un uomo che «accetta di umiliarsi» per «spirito di ubbidienza». La risposta si può ricavare forse ancora oggi nelle belle e intense parole di Massimo alla notizia della morte del caro fratello, avvenuta a Roma il 21 settembre 1862: «Sono molto triste; perché, quantunque gesuita lui e tutto l’opposto io, nonostante ebbimo sempre l’uno per l’altro grande simpatia fin da bambini: e da grandi ci siamo voluti bene, mentre pure ognuno combatteva nel proprio partito, e faceva al partito contrario il peggio che poteva… Povero frate! Certo che la sua vita non fu se non il continuo sagrifizio di se stesso a ciò che egli credeva la verità e il dovere».