Alessandra aveva diciannove anni quando si è accorta di essere incinta. Era stata cresciuta da una madre emancipata, separata, fieramente autonoma. Alessandra era libera di fare tardi la sera, di dormire fuori, di fare quello che voleva con i ragazzi. La sua mamma per lei era un mito, così diversa dalle altre, così poco opprimente. Perciò è stato naturale per lei correre dalla madre per quell’emergenza, come è stato naturale per la madre portarla dal suo ginecologo, che senza battere ciglio l’ha indirizzata verso l’”eliminazione di quel grumo di cellule”, del quale si è ben guardato di mostrare la vera natura – un cuore che batte, una vita che pulsa da subito! – alla ragazza, “per non impressionarla”.
Nessuna alternativa proposta, neppure uno dei colloqui previsti, obbligatori, dalla 194.
Alessandra è stata portata in uno stanzone da cui le madri, una ad una, venivano portate via, addormentate, e liberate del problema. Il risveglio per lei è stato traumatico, per una brutta infezione, e poi, guarita nel corpo, le cose sono andate sempre peggio. Angoscia, tristezza, impossibilità di avere rapporti col suo ragazzo. Una storia finita, poi qualche altra, ma niente che colmasse il vuoto.
Intanto per lei era diventato insopportabile il solo pensiero di uccidere un essere vivente, così è diventata vegetariana di stretta osservanza, e se vedeva una coccinella annaspare nell’acqua dal bordo della piscina si spogliava e si tuffava a salvarla, anche se si era appena rivestita per andare a casa, tanto era il dolore che le procurava l’idea di non avere fatto niente per salvare quell’insettino.
Per connettere il dolore alla sua vera causa, l’aborto, ci sono voluti un sacco di anni. Anni in cui ha anche deciso di essere pronta per avere bambini, che però poi non sono più arrivati. Quasi venti anni di sofferenza, mutante, strisciante, sotterranea o esplosiva, manifesta.
Culminata con un tentativo di suicidio che è stato per lei come toccare il fondo con le gambe e così darsi una spinta per risalire.
So che ci sono tante sostenitrici dell’aborto che negano che debba essere necessariamente per tutte un trauma, ma io faccio molta fatica a crederlo. Alessandra per esempio era, per sua dichiarazione, atea e bestemmiatrice convinta.
Nessun senso di colpa indotto dalla Chiesa può essere responsabile di quello che le è successo dopo. Lei è il prototipo della donna libera, priva di condizionamenti religiosi, bella, bellissima, se questa informazione c’entra qualcosa, intelligente, simpatica e piena di amici.
Ma non riusciva proprio a perdonarsi, perché non aveva chiamato per nome quello che aveva fatto, e quindi era lei la prima a non chiederlo, quel perdono, a pensare di non meritarlo.
Poi nella sua vita è arrivato l’amore sconfinato e misericordioso di Gesù, che l’ha ripescata a un passo dal baratro, e la sua vita ha cominciato a rifiorire. È stata perdonata con sovrabbondanza di tenerezza, e ha ricominciato a sorridere. Si è avvicinata, prima piano piano poi con l’ardore di chi non può più respirare senza, alla preghiera, ai sacramenti.
Ho ascoltato la testimonianza di Alessandra due anni fa, al convegno il giorno prima della Marcia per la Vita; una grandissima donna che ha avuto il coraggio di mettere a nudo il suo cuore, buttato in pasto a trecento ragazzi, esposta al loro giudizio, parlando dei suoi errori senza farsi sconti, prendendosi tutte le responsabilità, forse anche quelle non sue.Perché io ascoltandola continuavo a pensare a tutti i condizionamenti che ha subito senza difese, senza anticorpi, senza strumenti per farsi un giudizio diverso da quello dell’ideologia imperante.
Nessuno le ha mai prospettato una strada diversa, nessuno si è messo a camminare al fianco di una ragazzina giovanissima e inesperta, per vedere se c’era il modo di aiutarla a tenere il suo bambino. Tutti quelli che aveva intorno, anzi, le hanno detto che era coraggiosa e forte a liberarsi di quel problema per seguire la sua strada, per realizzare i suoi sogni. Non so davvero cosa avrei fatto al posto suo, non lo so.
Alessandra racconta la sua storia, forse con dolore e fatica (ma non si vede, è così dolce e sorridente!), ma lo fa perché spera di aiutare qualche ragazza a capire che l’aborto è una morte doppia, di una mamma e di un bambino.
Accetta di farsi umile, umilissima, e di farlo davanti a tutti, anche senza conoscere i suoi interlocutori, anche a rischio di essere giudicata. Accetta di farlo per amore, per salvare qualche vita.
Sono sicura che già lo ha fatto, che già con le sue parole ha salvato almeno un bambino, ed è così diventata madre, in un altro modo, coraggioso, umile, senza avere niente in cambio.
Fonte: il blog di Costanza Miriano