Questa è la storia di un processo diabolico, dove però il Diavolo non s’era acquattato dove tutti indicavano. È la storia che per circa diciassette anni ha coinvolto le comunità cattoliche della Bassa Modenese, trasformate da tribunali, servizi sociali e giornali in postriboli mefistofelici dove congreghe di insospettabili, all’interno di comunità cattoliche ignare o conniventi, compivano i più atroci delitti a danno di innocenti bambini: picchiati, abusati, tumulati vivi e persino uccisi.
La vicenda si è conclusa il 4 dicembre scorso, con l’assoluzione di Delfino e Valeria Covezzi, ma non senza lasciare dietro di sé un’impressionante scia di morti, suicidi, rovine.
La storia inizia a maggio 1997 quando, all’interno di una famiglia disagiata di Massa Finalese, si sospetta siano avvenuti degli episodi di abuso. Il padre e il figlio da poco maggiorenne sono arrestati e condotti in carcere con l’accusa di pedofilia.
La famiglia è da tempo assistita dai servizi sociali della zona. Già sfrattati nel 1993, hanno dovuto sottostare alle indicazioni dell’Usl di Mirandola che ha consegnato i due figli minori, un maschietto, D., e una bambina, ad alcune famiglie affidatarie.
I due piccoli, solo di tanto in tanto tornano nella casa dei genitori ed è durante uno di questi periodi che D. racconta, prima alla madre affidataria e poi alla psicologa del servizio sociale, Valeria Donati, che il fratello «fa dei dispetti sotto le lenzuola alla sorella».
Dopo una serie di colloqui con la Donati – alla sua prima esperienza professionale dopo la laurea – i racconti del piccolo si fanno più tenebrosi chiamando in causa padre e fratello in vicende di abuso. Così, il 17 maggio 1997 i due sono condotti nel carcere di Sant’Anna in Modena per ordine del pm Andrea Claudiani.
La famiglia è seguita anche da un sacerdote della zona, don Giorgio Govoni, parroco di Staggia e San Biagio, da tutti conosciuto come il “prete camionista”. Don Govoni camionista lo è per davvero. Persona di umili origini, ha svolto quella professione per non gravare economicamente sulla famiglia.
In quegli anni don Giorgio si occupa, per conto della diocesi, di famiglie difficili come quella di Massa Finalese, di cui conosce il padre, che va a trovare in carcere, il figlio maggiore, cui trova un avvocato, la madre e la figlia, che ospita in parrocchia.
L’unico che non conosce è il figlio minore, che non ha mai visto, ma che sarà, involontariamente, all’origine dei suoi guai. Perché “involontariamente?”. Perché con il piccolo D., così come per tutti i protagonisti di questa vicenda, sarà applicata la tecnica dello “svelamento progressivo”. In sostanza si ritiene che il minore vittima di abuso rivelerà pian piano la sua storia e che quindi sia necessario farlo parlare il più possibile.
Ma nel caso della Bassa, tale tecnica giungerà a punte paradossali e deleterie, con bambini sottoposti a interrogatori ripetuti e massacranti atti a far loro dire non la verità, ma quel che gli adulti che li interrogano si attendono che essi rivelino.
Accadrà così che le loro fantasie grandguignolesche saranno scambiate per reali e, in mancanza di riscontri fattuali, tanto peggio per la realtà. È il processo dello svelamento progressivo che conta, quand’anche esso sia grottesco e inverificabile.
Secondo punto importante: i colloqui fra i bambini e le assistenti sociali di Mirandola saranno sempre riferiti da queste ultime. Non esistono appunti né registrazioni, ma solo le parole riportate dalle assistenti, tutte legate all’associazione Cismai, al pm.
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