Seoul (AsiaNews) – Paolo Yun Ji-chung nasce nel 1759 da una famiglia nobile e conosciuta di Janggu-dong, a Jinsan. Il suo nome adulto, prima del battesimo, era “Uyong”. Francesco Yun Ji-heon, martirizzato a Jeonjiu durante la persecuzione Shinyu del 1801, era suo fratello minore. Paolo Yun, intelligente e degno di fiducia, decide di dedicarsi sin da piccolo agli studi. Nella primavera del 1783 passa i primi esami di Stato.
E nello stesso periodo inizia a sentire parlare della fede cattolica da un suo cugino, Giovanni Jeong Yak-yong, figlio di una sorella del padre.
Decide di leggere alcuni libri che parlano di questa religione e, convinto, inizia il percorso di conversione. Dopo 3 anni di studi della dottrina cattolica viene battezzato nel 1787 da Pietro Yi Seung-hun.
Paolo Yun decide di insegnare il catechismo alla madre, al fratello Francesco e a un cugino da parte materna, che sarà battezzato Giacomo Kwon Sang-yeon. Da quel momento decide di proclamare il Vangelo insieme ad Agostino Yu Hang-geom, un parente acquisito per via matrimoniale.
Nel 1790, quando il vescovo di Pechino mons. Gouvea emana il decreto che proibisce la pratica dei riti ancestrali, Paolo e suo cugino Giacomo bruciano le antiche tavole collegate alla fede animista.
Quando sua madre – zia di Giacomo – muore, Paolo sceglie di celebrare un funerale cattolico al posto di quello confuciano secondo le ultime volontà della defunta.
Ma subito dopo questo fatto, si sparge la voce che il giovane non ha celebrato i riti ancestrali e ha bruciato le tavole: quando la Corte viene a saperlo, si scatena la furia del re.
Al magistrato di Jinsan arriva l’ordine di “arrestare Yun Ji-chung e kwon Sang-yeon”. I due cercano rifugio, il primo a Gwangchoen e il secondo ad Hansan. Al posto di Paolo, il magistrato per vendetta ordina l’arresto dello zio: venuti a conoscenza di questo arresto, Paolo e Giacomo decidono di uscire dai loro nascondigli e consegnarsi al magistrato. È la metà dell’ottobre del 1791.
Come prima cosa, il magistrato di Jinsan cerca di convincere i due ad abbandonare la fede. La risposta è che la fede “non si può abbandonare, per nessun motivo”.
Nonostante la situazione, i due continuano a proclamare il cattolicesimo come vero insegnamento di vita. Il magistrato, capito che non riuscirà a farli abiurare, li manda dal governatore di Jeonju.
Interrogati subito dopo il trasferimento, rifiutano di dare i nomi degli altri cattolici che conoscono [il governo ha nel frattempo emanato un decreto che definisce il cristianesimo “un culto malvagio” e ha dato l’ordine di “estirparlo” ndr].
I due arrestati difendono con determinazione il proprio credo e non dicono neanche una parola che possa danneggiare la Chiesa o gli altri cattolici. Paolo Yun, in particolare, sottolinea l’irrazionalità dei riti ancestrali confuciani alla luce della dottrina della fede cattolica. Questa confutazione fa infuriare il governatore, che ordina di “punirli con severità”.
Sia Paolo che Giacomo sono pronti a morire per Dio. La loro unica risposta a questa sentenza è: “Serviamo Dio, nostro padre, e quindi non possiamo disubbidire ai suoi comandamenti”.
Il governatore di Jeonju fa scrivere ai due arrestati una deposizione e li manda alla Corte. Anche qui, i due cattolici non si piegano alle richieste: sale la tensione fra il sovrano e gli arrestati.
I ministri della Corte iniziano a dire: “Yun Ji-chung e Kwong Sang-yeon dovrebbero essere decapitati”. Il re accetta l’opinione dei suoi ministri e ordina l’esecuzione.
Appena la decisione arriva al governatore di Jeonju, Paolo e Giacomo vengono trascinati fuori dalle loro celle e portati alla Porta meridionale della città.
Paolo sembra felice come uno che stia andando a un banchetto. Mentre cammina, continua a spiegare la dottrina cattolica a quelli che lo seguono. L’8 dicembre 1791 (il 13 novembre secondo il calendario lunare) i due vengono decapitati e muoiono come martiri mentre pregano Cristo e la Vergine.
Paolo Yun muore a 32 anni.
Le famiglie devono aspettare 9 giorni prima di ottenere il permesso dal governatore per seppellire i corpi di Paolo e Giacomo.
Rimangono sorpresi dallo scoprire che entrambi i martiri sembrano essere morti da poco, con il sangue ancora brillante e fresco. I fedeli riescono a bagnare alcuni pezzi di stoffa con questo sangue: alcuni sono mandati a mons. Gouvea, a Pechino.
Diversi malati, in pericolo di vita, si sentono meglio dopo aver toccato queste “reliquie”.
Nel rapporto del governatore che esegue la sentenza alla Corte si legge: “Nonostante i loro corpi siano coperti di sangue, non si lamentano neanche. Rifiutano di rinunciare alla loro fede dicendo ‘l’insegnamento di Dio è molto chiaro, non possiamo disobbedire. Quindi dobbiamo disobbedire ai nostri genitori e al re’. Hanno detto che è un grande onore morire per Dio sotto la lama di un coltello”.