A tutti i cattolici prima o poi capita di sentirsi domandare perché la Chiesa non venda tutte le sue “enormi” ricchezze per darle ai poveri. Le risposte immediate sono sempre le stesse, una delle quali, a nostro modestissimo giudizio, potrebbe essere questa: se anche qualcuno acquistasse l’intero Stato del Vaticano, se anche si riuscisse a inviare i soldi ricavati a tutti i poveri della terra (ovviamente stiamo facendo un’ipotesi irrealizzabile, visto che negli anni ’80 si è fatto fatica a recapitare ai terremotati dell’Irpinia le somme raccolte dagli italiani) e li si sfamasse per uno o due giorni, il problema della fame del mondo sarebbe risolto definitivamente?
Corrado Gnerre, sul sito Il giudizio cattolico, conduce un’analisi puntuale ed esauriente di tale argomento e a premessa del suo perfetto articolo vogliamo aggiungere alcune nostre brevi considerazioni riguardo alla ricchezza delle nostre chiese.
Se andiamo a rileggere nel Vecchio Testamento il libro dell’Esodo vediamo che Dio dette a Mosè ordini ben precisi su come voleva che fosse costruita l’arca che doveva essere la sua dimora in mezzo al popolo ebraico: “Ordina agli Israeliti che raccolgano per me un’offerta. La raccoglierete da chiunque sia generoso di cuore. Ed ecco che cosa raccoglierete da loro come contributo: oro, argento e rame, tessuti di porpora viola e rossa, di scarlatto, di bisso e di pelo di capra, pelle di montone tinta di rosso, pelle di tasso e legno di acacia, olio per il candelabro, balsami per unguenti e per l’incenso aromatico, pietre di ònice e pietre da incastonare nell’efod e nel pettorale. Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro. “
Chiese cioè che venissero donati per l’opera i materiali più preziosi esistenti all’epoca e lo chiese a un popolo che abitava nel deserto. Una volta completata la dimora, nel libro dei Numeri leggiamo che i capi del popolo, oltre agli animali per i sacrifici, donarono pesanti piatti d’oro e d’argento insieme a coppe, sempre d’oro e piene di profumi.
Molto di più fece Re Salomone nel costruire il suo famoso tempio, per edificare il quale occorsero ben sette anni: tutti i materiali erano pregiati, lavorati e cesellati dai migliori artigiani e la cella interna, che doveva custodire l’arca dell’alleanza, fu completamente rivestita d’oro puro, così come l’interno del tempio e l’altare.
Se il Signore ha permesso che non esistano più né arca né tempio e vuole che il Corpo di Suo Figlio morto e risorto sia custodito nelle nostre chiese, Lo dovremmo ospitare con minor onore?
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Una delle questioni che più frequentemente vengono proposte negli incontri di catechesi è quella riguardante la cosiddetta “ricchezza” della Chiesa. Ma è mai possibile – si chiede solitamente – che la Chiesa possegga tanta ricchezza pur predicando la povertà?
E allora è bene chiarire alcuni punti per saper rispondere a questo interrogativo, che, come abbiamo già detto, è molto diffuso.
Divideremo il discorso in quattro punti:
1. La povertà non va confusa con il pauperismo.
2. La Verità non può essere separata dalla bellezza.
3. La ricchezza della Chiesa… non è della Chiesa.
4. La Chiesa non è del mondo, ma è nel mondo.
La povertà non va confusa con il pauperismo
Iniziamo con il primo punto. Prima di tutto va detto che la povertà non può essere confusa con il pauperismo. La povertà è un valore che deve essere tenuto in considerazione da tutti i cristiani. Tutti sono tenuti ad essere “poveri”, perché la povertà è rapportarsi nel modo corretto ai beni materiali, nel senso che questi beni non possono e non devono essere considerati “fini” ma solo “mezzi”. Nelle Beatitudini (Luca 6) Gesù chiama i poveri “beati”, mentre dice: «guai a voi ricchi!». Ebbene, quella povertà e quella ricchezza non devono essere pensate in senso economico.
Il “povero”, evangelicamente, non è colui che non possiede nulla, quanto colui che, pur possedendo, sa che quella ricchezza va considerata solo come mezzo per praticare il bene e avvicinarsi a Dio. Invece il “ricco”, in senso evangelico, non è colui che necessariamente possiede, bensì colui che è tanto pieno di sé da non saper far posto a Dio nella sua vita.
Paradossalmente, se uno ha in tasca 10.000 euro, ma fa di questa cifra non il fine della sua vita ma un mezzo per praticare il bene, costui non è un ricco ma un povero. Se invece uno ha in tasca solo un euro, ma fa di questo misero euro il fine della sua vita, addirittura dichiarandosi disposto a calpestare anche la legge di Dio pur di aumentare la sua “ricchezza”, costui non è un povero ma un ricco. Certo, è indubbio che chi possiede molto, più facilmente sarà tentato nell’orgoglio e nella presunzione; chi invece possiede di meno, più facilmente sceglierà l’umiltà e la semplicità; ma da qui a rilevare un automatismo ce ne corre.
Inoltre, come abbiamo accennato prima, va detto che non si può confondere la povertà con il pauperismo. Quest’ultimo è la povertà economica a tutti i costi. Ma ciò è lontano da una corretta prospettiva cristiana. Prendiamo san Francesco d’Assisi, modello della vera povertà. Questo grande santo ci teneva a far capire ai suoi frati che la strada della loro povertà doveva essere considerata come una delle tante per arrivare in Paradiso, ma non l’unica strada. La strada necessaria per chi sceglieva la loro vita, ma non per gli altri. Tanto è vero che chi, tra i francescani, la pensò in maniera difforme dal Serafico Fondatore, finì con l’uscire dalla Chiesa e morire eretico.
La Verità non può essere separata dalla bellezza
Veniamo al secondo punto: la Verità non può essere separata dalla bellezza. Citiamo nuovamente san Francesco d’Assisi. Questo egli pretendeva la massima povertà per i suoi frati, ma il massimo splendore per gli edifici ecclesiastici. Egli diceva che le chiese dovrebbero essere piene di oggetti preziosi tanto è la Grandezza che contengono, ovvero il Santissimo Sacramento. I paramenti liturgici, che le clarisse del tempo di san Francesco cucivano, erano ricamati con fili d’oro, perché così voleva il Serafico Padre. La bellezza, infatti, deve significare la Verità. Meglio: la Verità deve essere significata dalla bellezza. E la bellezza è anche maestosità, è anche “ricchezza”.
Nella Prima Lettera ai custodi scrive: «Vi prego, più che se riguardasse me stesso, che, quando vi sembrerà conveniente e utile, supplichiate umilmente i chierici di venerare sopra ogni cosa il santissimo corpo e sangue del Signore nostro Signore Gesù Cristo e i santi nomi e le parole di lui scritte che consacrano il corpo. I calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, devono essere preziosi. E se in qualche luogo trovassero il santissimo corpo del Signore collocato in modo miserevole, venga da essi posto e custodito in un luogo prezioso, secondo le disposizioni della Chiesa, e sia portato con grande venerazione e amministrato agli altri con discrezione».
C’è qualcosa d’interessante ai fini di ciò che stiamo dicendo nella biografia di Francois Trochu su san Giovanni Maria Vianney (il Santo Curato d’Ars): «Don Vianney (…) per rispetto all’Eucaristia, volle quello che di più bello era possibile avere. (…) Quindi aumentò il “guardaroba del buon Dio”, come diceva lui, col suo linguaggio colorito e immaginoso. Visitò a Lione i negozi di ricamo, di oreficeria, e vi acquistava ciò che vi trovava di più prezioso. “Nei dintorni”, confidavano i suoi fornitori meravigliati, “c’è un piccolo curato magro, che ha l’aria di non averne mai neanche un soldo in tasca e che per la sua chiesa vuole sempre il meglio!”. Un giorno del 1825, la contessina d’Ars lo condusse con sé in città, per acquistare un paramento per la Messa. A ogni nuovo modello che gli veniva presentato, ripeteva: “Non è abbastanza bello!… Occorre qualcosa di più bello di questo!”».
Nel Vangelo di San Giovanni (capitolo 12) vi è un episodio che per questa questione dice tutto: «Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali.Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?”». L’Evangelista aggiunge che Giuda disse così non perché gli interessassero i poveri, ma perché era ladro e voleva frodare ciò che vi era in cassa. La risposta di Gesù è chiara: «Lasciala fare (…) I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». Dunque, ci sono dei momenti in cui bisogna donare agli altri, ma ci sono anche dei momenti in cui bisogna sottolineare con la ricchezza la grandezza del divino.
Le bellezza ingentilisce gli animi, aprendoli anche alla sensibilità e quindi alla comprensione verso il prossimo. Creare bellezza è un atto di amore doveroso nei confronti di Dio. Si racconta che a Pisa, prima che costruissero la celeberrima Piazza dei Miracoli con il Duomo, il Battistero e il famosissimo Campanile (che poi è diventato la conosciutissima Torre Pendente) mancavano le fogne. Il popolo pisano, però, preferì costruire prima la cattedrale e poi eventualmente pensare alle fogne. La scelta fu certamente imprudente… ma di grande generosità verso Dio.
Verrebbe da pensare: ma che forse la Provvidenza abbia voluto ripagare la grande generosità dei Pisani del tempo? D’altronde, a differenza di altre città toscane, a Pisa se si toglie la Torre Pendente e Piazza dei Miracoli non rimane granché. La città è divenuta famosa in tutto il mondo per un fatto misterioso: il cedimento del terreno che ha permesso al Campanile non di schiantarsi al suolo, ma di rimanere sorprendentemente inclinato. E si badi: allora i sondaggi geologici li sapevano fare eccome… se è vero, come è vero, che tutto ciò che di grande costruivano è giunto intatto fino a noi malgrado molteplici terremoti.
La ricchezza della Chiesa… non è della Chiesa
In realtà la ricchezza della Chiesa non è della Chiesa. La ricchezza della Chiesa consiste soprattutto nelle opere d’arte, che, non solo non sono alienabili (nel senso che sono invendibili), ma esistono grazie soprattutto alla generosità dei fedeli. Si può raccontare questo significativo episodio. Nell’Emilia del dopoguerra, gli anni del grande scontro fra cattolici e comunisti, in una cittadina vi fu un convegno organizzato dall’allora Partito Comunista.
Tra i relatori vi era un professore (ovviamente comunista) che iniziò ad attaccare la Chiesa soprattutto per una sua presunta ricchezza tenuta per sé senza darla ai poveri. Tra il pubblico vi erano due colti sacerdoti che cercarono di prendere la parola per fare da contraddittori, ma aggravarono la situazione perché intervennero utilizzando un linguaggio troppo teorico e teologico, così la gente che assisteva, semplice ed ignorante, non riuscì a capire.
Provvidenza volle che prendesse la parola anche un semplice parroco, che in dialetto parlò ai presenti. Egli si limitò a raccontare agli abitanti di quella cittadina un fatto accaduto anni fa e che tutti ricordavano molto bene. Si trattava di un operaio comunista, ateo, al quale si ammalò gravemente l’unica figliola. La moglie, ch’era credente, decise di chiedere alla Vergine, a cui era dedicato un famoso santuario del posto, la grazia della guarigione.
Il miracolo ci fu: la bambina guarì. L’operaio, allora, volle andare dal miglior gioielliere della città per far realizzare un bellissimo ex-voto d’oro. Il lavoro fu eseguito e l’uomo lo portò al rettore del Santuario. Ma, dopo pochi giorni, l’operaio, passando dinanzi alla gioielleria, vide esposto in vetrina l’oggetto che aveva commissionato e consegnato al Santuario. Spazientito, chiese spiegazioni. Gli fu detto che il rettore lo aveva messo in vendita per costruire un oratorio per i fanciulli. L’uomo, giustamente, andò su tutte le furie: “Ecco, noi regaliamo alla Madonna…e i preti rivendono ciò che regaliamo!”.
E aveva ragione. Per quanto fosse buona l’intenzione del sacerdote, egli non poteva rivendere ciò che un fedele aveva regalato direttamente alla Vergine. Bastò il ricordo di questo episodio, perché tutti i presenti capissero il vero significato delle tante ricchezze della Chiesa.
La Chiesa non è del mondo, ma è nel mondo
Su questo punto diremo pochissimo.
È vero che il cassiere era Giuda Iscariota (perché evidentemente una certa inclinazione la doveva avere), ma Gesù stesso volle che gli apostoli avessero una cassa. E ciò perché l’evangelizzazione, pur non essendo del mondo, avviene nel mondo. Se la Chiesa non avesse un’autonomia economica, dovrebbe dipendere da qualche realtà mondana. Ma, se così fosse, non sarebbe più libera nei suoi giudizi. Un piccolo esempio: un conto è se si ha un proprio stipendio, altro se si dipende totalmente da qualcuno che dà da mangiare e da bere. Nel secondo caso, se ci si dovesse accorgere che colui da cui si dipende è un poco di buono, potrebbe subentrare facilmente la tentazione di chiudere entrambi gli occhi convincendosi: “se chi mi dà da vivere andrà in galera, chi mi sosterrà?”.
L’autonomia economica è sempre garanzia di libertà.
Corrado Gnerre