ROMA, 24 ottobre 2014 – Non è vero che Francesco sia stato zitto, nelle due settimane del sinodo. Nelle omelie mattutine a Santa Marta martellava ogni giorno gli zelanti della tradizione, quelli che caricano sugli uomini fardelli insopportabili, quelli che hanno solo certezze e nessun dubbio, gli stessi contro cui si è scagliato nel discorso di congedo con i padri sinodali.
È tutto tranne che imparziale, questo papa. Ha voluto che il sinodo orientasse la gerarchia cattolica verso una nuova visione del divorzio e dell’omosessualità e ci è riuscito, nonostante il numero risicato dei voti favorevoli alla svolta, dopo due settimane di discussione infuocata.
In ogni caso sarà lui alla fine a decidere, ha ricordato a cardinali e vescovi che ancora avessero qualche dubbio. Per rinfrescare la loro memoria sulla sua potestà “suprema, piena, immediata e universale” ha messo in campo non qualche raffinato passaggio della “Lumen gentium” ma i canoni rocciosi del codice di diritto canonico.
Sulla comunione ai divorziati risposati si sa già come il papa la pensi. Da arcivescovo di Buenos Aires autorizzava i “curas villeros”, i preti inviati nelle periferie, a dare la comunione a tutti, sebbene i quattro quinti delle coppie neppure fossero sposate.
E da papa non teme di incoraggiare per telefono o per lettera qualche fedele passato a seconde nozze a prendere tranquillamente la comunione, subito, senza nemmeno quei previ “cammini penitenziali sotto la responsabilità del vescovo diocesano” prospettati da qualcuno nel sinodo, e senza nulla smentire quando poi la notizia di questi suoi gesti trapela.
I poteri assoluti di capo della Chiesa, Jorge Mario Bergoglio li esercita anche così. E quando preme affinché l’insieme della gerarchia cattolica lo segua su questa strada sa benissimo che la comunione ai divorziati risposati, numericamente poca cosa, è il varco per una svolta ben più generalizzata e radicale, verso quella “seconda possibilità di matrimonio”, con conseguente scioglimento del primo, che è ammessa nelle Chiese ortodosse d’oriente e che lui, Francesco, già poco dopo la sua elezione a papa disse “si debba studiare” anche nella Chiesa cattolica, “nella cornice della pastorale matrimoniale”.
Era il luglio del 2013 quando il papa rese pubblica questa sua volontà. Ma in quella stessa intervista sull’aereo di ritorno dal Brasile egli aprì il cantiere anche sul terreno dell’omosessualità, con quel memorabile “chi sono io per giudicare?” universalmente interpretato come assolutorio di atti da sempre condannati dalla Chiesa ma ora non più, se compiuti da chi “cerca il Signore e ha buona volontà”.
Nel sinodo una svolta in questa materia non ha avuto vita facile. È stata invocata in aula da non più di tre padri: dal cardinale Christoph Schönborn, dal gesuita Antonio Spadaro, direttore del “La Civiltà Cattolica”, e dall’arcivescovo malese John Ha Tiong Hock.
Quest’ultimo si è appoggiato su un parallelo fatto da papa Francesco tra il giudizio della Chiesa sulla schiavitù e quello sulla concezione che l’uomo d’oggi ha di sé, omosessualità compresa, per dire che come il primo è cambiato così può mutare anche il secondo giudizio.
Mentre padre Spadaro ha portato l’esempio fatto dal papa di una bambina adottata da due donne, per sostenere che bisogna trattare queste situazioni in modo positivo e nuovo.
Per aver poi inserito nel documento di lavoro di metà discussione tre paragrafi che incoraggiavano la “crescita affettiva” tra due uomini o due donne “integrando la dimensione sessuale”, l’arcivescovo Bruno Forte, voluto dal papa segretario speciale del sinodo, è stato sconfessato in pubblico dal cardinale relatore, l’ungherese Péter Erdõ.
E la successiva discussione tra i padri sinodali ha fatto a pezzi i tre paragrafi, che nella “Relatio” finale si sono ridotti a uno solo e senza più un briciolo di novità, nemmeno superando il quorum dell’approvazione.
Ma anche qui papa Francesco e i suoi luogotenenti, da Forte a Spadaro all’arcivescovo argentino Víctor Manuel Fernández, hanno centrato l’obiettivo di far entrare questo tema esplosivo nell’agenda della Chiesa cattolica, ai suoi più alti livelli. Il seguito si vedrà.
Perché la rivoluzione di Bergoglio procede così, “a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati”. Perché “l’importante è iniziare i processi più che possedere spazi”. Parole della “Evangelii gaudium”, programma del suo pontificato.
l’articolo pubblicato su «www.chiesa»