Il quotidiano torinese «La Stampa» esordisce così: «La diocesi di Torino dà lezione di fedeltà alle coppie gay». E già uno sobbalza sulla sedia. Poi, subito, l’articolo dà la parola a don Gianluca Carrega, responsabile diocesano della «pastorale degli omosessuali». Il quale mette le mani avanti: la fedeltà, la diocesi, solo «la propone, perché non vogliamo erigerci troppo a maestri, ma vogliamo dire che anche i gay meritano la fedeltà».
Due affermazioni col botto e al prezzo di una: non sia mai che i pastori si erigano a maestri, ci mancherebbe; no, nel nuovo clima della «misericordia» devono limitarsi ad accompagnare. Compagni di strada, mica maestri, non sia mai.
La Chiesa, sia chiaro, non ha (più) niente da insegnare a nessuno, titoli di enciclica come Mater et magistra sono obsoleti, fuorvianti e, ma sì, privi di misericordia nella loro assertività. Bisogna, invece, guardare ai segni dei tempi.
Per esempio, don Carrega l’anno scorso ha partecipato a un solo matrimonio etero e a ben tre unioni civili gay.
Così lui su «La Stampa». Rimane, tuttavia, il quesito: le nozze gay a Torino hanno superato quelle classiche? O il Nostro è stato invitato più in Comune che in chiesa? O è lui che preferisce presenziare alle unioni civili? Boh. In ogni caso, testimonia: «È stato bello, ogni volta una festa: quella legge ha portato molti frutti, io li ho visti e li riconosco».
Che tenerezza. Si evince che l’unico matrimonio etero non ha festeggiato adeguatamente, anzi, deve essere stato proprio triste, così tradizionale, così sorpassato.
Tuttavia, la legge Cirinnà sulle unioni civili ha una grave lacuna: non prevede, tra i diritti e i doveri della coppia, l’obbligo di fedeltà. Un paradosso (parole di don Carrega, che, tra l’altro, insegna nella Facoltà Teologica torinese).
Perciò la Diocesi di Torino, con a capo l’arcivescovo Nosiglia, ha dedicato a questo tema un ritiro quaresimale rivolto alle coppie gay, intitolato «Degni di fedeltà».
Per single e coppie, il 24 e 25 febbraio p.v. nel convento delle suore Figlie della Sapienza. I giornalisti Martinengo e Assandri a questo punto hanno fatto a don Carrega una domanda maliziosa: visto che è previsto il pernottamento, le coppie avranno camere matrimoniali? Ma «don Gianluca resta nel vago»: mah, si vedrà, quel che conta è che il posto letto sia comunque garantito.
Nell’incontro si discuterà «del valore della fedeltà e dell’amore, alla luce del messaggio biblico», insieme al padre gesuita Pino Piva. Carrega: «Su questi temi dobbiamo affiancare le coppie più che dirigere, d’altra parte non sarebbe onesto per chi, come me, è etero e celibe».
Giusto: la Chiesa, per duemila anni composta di celibi, non ha niente da insegnare a nessuno in materia sessuale. Accompagnare, affiancare, mi raccomando, non mettere bocca, limitarsi a contemplare.
Il gesuita (e te pareva), certo, dovrà fare i salti mortali per coniugare platea gay e «messaggio biblico», visto quel che la Bibbia pensa dei gay, ma scommettiamo che riuscirà a cavarsela. Ora, don Carrega non le manda a dire e parla apertamente di «controsenso» nell’insegnamento tradizionale della Chiesa.
Infatti –dice – se un omosex cade in un peccato sessuale e si confessa, viene assolto e può fare la comunione.
Se invece ha un’unione stabile, no. «Ma così rischiamo di fare tanti danni, incentivare tra i fedeli la clandestinità e la deresponsabilizzazione».
Be’, lo stesso discorso vale anche per gli etero non sposati in chiesa, ma se don Carrega non è in grado di cogliere la differenza (è teologia morale) non saremo noi a spiegargliela. Magari potrebbe farlo, se ne ha voglia, il suo arcivescovo.
No, don Carrega ha le idee chiare, perché il problema non sono i gay ma la Chiesa, che deve finalmente fare «una riflessione sul valore dell’affettività omosessuale».
Per venti secoli l’ha condannata, ora è finalmente sorto il sol dell’avvenire. Contrordine, compagni.