Anche la chiesa deve pagare l’Imu? “I principi sono chiari; è l’attuazione che è complicata”, ammonisce Cesare Mirabelli, costituzionalista, ordinario di Diritto ecclesiastico nell’Università di Roma Tor Vergata e nell’Università Europea di Roma.
Sì perché, se era chiaro fin da prima della bocciatura da parte del Consiglio di Stato del regolamento del Tesoro sull’applicazione dell’Imu per gli enti non profit, chiesa inclusa, che qualsiasi ente non commerciale che svolge attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive, nonché attività di religione e di culto non deve versare l’Imu; quello che è più difficile stabilire è invece come si gestiscono situazioni in cui il medesimo immobile è ripartito fra più usi e destinazioni.
Ed è questo il punto che voleva illegittimamente disciplinare il regolamento adottato dal Tesoro in esecuzione dell’articolo 91-bis comma 3 del dl 1/2012, il decreto liberalizzazioni. Per fare chiarezza su una vicenda, dove “la cautela è d’obbligo”, abbiamo chiesto a Mirabelli di rispondere ad alcune domande.
Professore, dopo la bocciatura del Consiglio di Stato cosa succede?
Partiamo dal contesto nel quale ci troviamo. All’esame del Consiglio di Stato c’era uno schema di regolamento rispetto al quale, come accade per tutti gli schemi di regolamento, il Consiglio ha espresso il suo parere in sede consultiva. Il Consiglio ha fatto cioè delle osservazioni che riguardano non l’intero testo bensì solo una parte di esso, in particolare sull’idoneità o meno della fonte, cioè se il regolamento, per il suo contenuto, poteva disciplinare la materia in esame.
E ha detto no, giusto?
Esatto. Il Consiglio di Stato ha ritenuto che il regolamento andasse oltre quanto concesso dalla legge perché offriva in maniera molto articolata una definizione delle attività commerciali e non commerciali al fine di stabilire quali tipologie di immobili fossero assoggettabili a Imu e quali no. Ma nel far questo, secondo il Consiglio, il Tesoro ha operato senza copertura legislativa, senza che ci fosse cioè l’indicazione di criteri contenuti nella legge stessa. Oltretutto in una materia che è particolarmente delicata e complessa per quanto riguarda l’utilizzazione degli immobili. Ma sotto questo aspetto il Consiglio non ha fatto altro che sollevare un semplice problema di forma.
E adesso come ci si comporta?
Ora non si può che fare riferimento ai principi. E i principi sono che, per le attività di religione e di culto, così come per tutte le attività non commerciali svolte in determinati enti, in materia di Imu, vi è un trattamento particolare. Per tutti questi soggetti la disciplina può dunque essere di vantaggio, ma si tratta sempre di vedere quando simili attività non siano destinate a una finalità lucrativa. E questo è un crinale piuttosto complesso sul quale muoversi. Il regolamento si sforzava di definire per dare certezza applicativa a questi rapporti, e in assenza del regolamento l’amministrazione non potrà che adottare criteri rispondenti a questi principi. Ma ci potrà essere anche un effetto giurisprudenziale se nei singoli casi dovesse sorgere un contenzioso.
Gli oratori potranno vendere i dolci ai bambini senza dover versare l’Imu?
Gli oratori certamente non dovranno versare l’Imu. Per le attività di tipo sociale non c’è nessun carattere lucrativo. Se però negli oratori dovesse esserci un’attività commerciale e lucrativa, come un piccolo bar, questo verrebbe assoggettato a disciplina analoga a quella di altri enti commerciali.
E cosa succede per chi svolge attività sanitarie o di istruzione?
Quand’è che le attività sanitarie possono essere considerate non lucrative e quando invece commerciali? Il punto è delicato. Perché ci possono essere prestazioni che sono a pagamento ma che non si caratterizzano come attività commerciali: per esempio quando il contributo versato non copre le spese o quando si tratta di soggetti accreditati al Sistema sanitario nazionale. Così come può esserci esenzione dell’Imu per le scuole quando la retta scolastica non è diretta a procurare un profitto e ha anche una determinata caratterizzazione quantitativa. È tutto questo che il Consiglio di Stato ha detto non poter essere disciplinato da un regolamento ma che deve essere la legge a farlo. Con cautela, s’intende, perché ci sarà sempre una zona grigia tra attività commerciali e non commerciali quando non vi è una distinzione netta nell’edificio in questione. Come nel caso di una casa religiosa che accoglie pellegrini e che magari fa anche da albergo. Se ci sono locali diversi è più semplice; ma se non è così, è più difficile.
Il ministro Vittorio Grilli ha detto che l’obiettivo del governo è quello di “assoggettare tutti quelli che devono esserlo all’Imu” e che per farlo “troveremo le soluzioni tecniche appropriate”. Cosa ne pensa?
Credo che se il governo non dovesse operare nessun tipo di distinzione, ne nascerà probabilmente un contenzioso. Vedremo.
Posto che la bocciatura del Consiglio di Stato afferisce a principi democratici per cui cambiare le leggi spetta al Parlamento e non a regolamenti ministeriali, lei che idea si è fatto della vicenda? Come crede che si risolverà?
Potrebbe esserci margine per una iniziativa legislativa in coda alla legislatura, ma mi sembra difficile visti i tempi che occorrono per l’elaborazione e l’approvazione di una legge. Il Parlamento ha ottimisticamente sei mesi di lavoro ancora e una legge così, in sei mesi, non si fa. Tuttavia bisogna trovare un punto di equilibrio nel quale si possa individuare meglio quali attività, svolte da qualsiasi ente o associazione, sono di carattere sociale e quando esse sono meritevoli di esenzione. Ed è un problema di carattere generale che non riguarda solo gli enti ecclesiastici. Altrimenti c’è sempre il rischio di una indebita esenzione da un lato e di un gravame fiscale non dovuto che limita o riduce attività di carattere sociale dall’altro.
Matteo Rigamonti
Fonte: ilsussidiario.net