Il silenzio che salva – di Fra Elia

S. Francesco - Andrea PozzoDeus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum (Sal 72, 26). (trad. Ma Dio è la rocca del mio cuore e la mia parte per sempre)

Molte controversie risulterebbero meno intricate, così come si eviterebbero tante deviazioni, se tenessimo tutti presente un principio che, per grazia, compresi negli anni del liceo: le questioni che ci poniamo su Dio sono problemi per noi, ma non per Lui.

La realtà divina, essendo assolutamente indivisa, è esente da qualsiasi tensione, ma per la limitatezza del nostro intelletto essa ci appare complicata, costringendoci a ragionamenti complessi che a volte finiscono in paradossi e antinomie; Dio però, in se stesso, è semplice.

È consolante costatare che san Tommaso, parlando di Lui nella prima parte della Summa, richiami spesso i limiti della nostra mente e i condizionamenti dovuti al nostro modo di apprendere, che procede spesso per via negativa, non avendo noi esperienza diretta di ciò che è in-finito, in-causato, in-terminabile…

Qualsiasi cosa diciamo di Lui, di conseguenza, andrà sempre intesa analogicamente, senza dimenticare che la Sua realtà eccede infinitamente tutto ciò che possiamo conoscerne.

Non mi interessa sentirmi un dio per quel poco che so o che capisco (che fino alla visione beatifica è e sarà sempre un nulla rispetto a ciò che non so e non capisco); non mi importa niente apparire qualcuno agli occhi della gente, se un giorno cadrò nell’oblio perché non avrò amato.

Non c’è nulla al mondo che possa saziarmi, se non Dio. Io voglio Lui e perdermi in Lui. Qualsiasi conoscenza io possa acquisirne, non potrà mai essere altro che un trampolino per tuffarmi nel Suo abisso di indicibile silenzio.

Quella conoscenza è certamente vera in quanto fondata sulla ragione e sulla fede, che Dio stesso mi ha dato come due ali perché io potessi arrivare a Lui con sicurezza, evitando di scambiarlo con una proiezione della mia psiche o un teorema della mia mente; essa, tuttavia, mi deve condurre a una viva relazione con Lui che mi prepari a contemplarlo a faccia a faccia, ardendo in eterno d’amore e gratitudine per l’immensa degnazione di questo munificentissimo Signore che ha pensato di crearmi e di donarsi a me.

Molteplici trappole, però, insidiano il cammino di chi Lo desidera sopra ogni cosa. Ci sono tante ingannevoli scorciatoie che si presentano come risposte immediate alla sete di chi cerca Dio.

Oggi, come già visto, è facile scambiarlo per un’idea, una velleità o un’emozione, relegandolo in un rito, un impegno o una bella teoria che alla fine appagano unicamente l’io, questo moccioso narciso e accentratore che si rifiuta di convertirsi, mutando continuamente pelle per adattarsi a tutte le evenienze.

Nella Sua misericordia il Signore concede, a chi è disposto a crescere, delle occasioni di purificazione che ammansiscano l’io peccatore e lo riplasmino come nuova creatura.

È il morire a sé stessi tipico dell’ascesi cristiana, che consiste nella collaborazione umana volta a riconoscere, accogliere e assecondare l’opera divina: penitenza, mortificazione, accettazione delle contrarietà e umiliazioni.

San Paolo non si stanca di esortare a far morire le opere del corpo, cioè le espressioni dell’uomo vecchio, per dare effetto alla rinascita battesimale, avvenuta nel mistero, e sviluppare progressivamente il dono della vita nuova, nutrita dalla grazia.

Proprio sotto questo aspetto, la mia generazione ha conosciuto un’insidia particolarmente subdola, che annulla a priori il pensiero stesso di dover lottare contro il peccato e progredire nella vita cristiana, lasciando così la grazia senza frutto.

I teologi che l’hanno teorizzata come una scoperta le hanno perfino coniato un nome: l’escatologia realizzata. In soldoni, quello che ci è promesso nel Vangelo è già presente nella nostra esperienza.

Questo può esser vero se si aggiunge: in germe; altrimenti l’idea è contraddittoria: ciò che è atteso non può essere già compiuto; «ciò che si spera, se visto, non è più speranza» (Rm 8, 24).

Basta un piccolo ragionamento per demolire certe fantasie; eppure è proprio quel piccolo ragionamento che oggi sembra a molti così arduo, anche perché nessuno insegna più a ragionare, come faceva san Tommaso con i suoi allievi.

Il fatto è che quell’elementare uso del raziocinio metterebbe in crisi interi movimenti ecclesiali che fondano la loro proposta proprio sull’illusione che quanto promesso da Gesù sia già realtà piena – per i membri del movimento, ovviamente, per gli altri no.

Nella mia giovinezza si viveva immersi in quest’aura da Gerusalemme celeste da cui, volenti o nolenti, s’era tutti più o meno contagiati, tanto da chiedersi in sordina a che mai servissero ancora i Sacramenti (se non ad autocelebrarsi), mentre l’osservanza dei Comandamenti era un fantasma del passato.

Poco importa che le storie personali di molti ferventi cattolici di allora siano attualmente cumuli di macerie: evocare tali soggetti non è bon ton; semmai si rimpiange con nostalgia il bel tempo andato o ci si accanisce a reiterare le stesse esperienze fallimentari, in cui si era pur convinti di aver trovato tutto.

Se poi la dissonanza con la realtà effettiva raggiunge livelli intollerabili, ci si butta dai sogni ad occhi aperti in una paranoia apocalittica che rileva in ogni soffio di vento un segno certo della catastrofe imminente, matrice dell’universale palingenesi.

Ma di accettare la necessaria purificazione dell’io con umiltà e pazienza, neanche a parlarne: se il paradiso in terra, che credevamo realizzato, non c’è ancora, bisogna che arrivi quanto prima, almeno entro il 2017; lo dice la Madonna…

Non sto dicendo che l’attuale situazione del mondo e della Chiesa non sia semplicemente tragica e che non ci si debba prudentemente preparare a probabili eventi catastrofici, come uno scisma, una guerra mondiale o un cataclisma naturale; una purificazione generale è comunque necessaria, ma è anche invocata dall’anelito comune a una liberazione dall’oppressione del male, che ha toccato livelli mai visti e assunto forme inedite.

Il fatto è che non potrà resistere alla prova se non chi sarà intimamente unito a Dio perché si sarà personalmente purificato e avrà trovato unicamente in Lui tutto il proprio bene. Vedete che, alla fine, la mistica (quella autentica) è l’unica via d’uscita.

Una vita spirituale completamente estroflessa in dispute teologiche o in una spasmodica ricerca di notizie, profezie e presunti messaggi è una vera e propria trappola del diavolo, come già l’escatologia realizzata di certi teologi di grido: l’uomo interiore, in questo modo, viene lasciato morire di inedia; nel momento in cui dovrà reagire, si scoprirà estinto.

Rientra nel cuore. Non è intimismo. Nel cuore dei battezzati abita la Trinità incorruttibile: immergiti nella Sua vita ineffabile; anticipa realmente, per quanto possibile su questa terra, il Paradiso.

Porgi l’orecchio alla voce del silenzio, a quell’unica parola impronunciabile che comunica la vita a chi la accoglie in cuore tacito e puro.

Non fuggire da te stesso, ma riscopri il tuo vero io, quello che da tutta l’eternità era nella mente di Dio e che per tutta l’eternità sei chiamato ad essere.

Lasciati purificare dalla viva fiamma della carità divina, non temere di perderti; o, meglio, acconsenti a perderti per poterti ritrovare.

San Nicolao della Flüe, della cui nascita si celebra il sesto centenario, per tutta la vita non ebbe altro anelito che quello di essere uno in Dio, ciò che chiamava einig wesen.

Per poterlo realizzare, Gli rivolgeva continuamente questa preghiera: «Mio Signore e mio Dio, togli da me tutto ciò che mi allontana da te. Mio Signore e mio Dio, dammi tutto ciò che porta a te. Mio Signore e mio Dio, toglimi a me e dammi tutto a te».

 
Fonte: La Scure