Oggi è un giorno miracoloso. Sono commosso per il fatto essere vivo, stare bene ed essere di nuovo unito alla mia famiglia. Come medico missionario non avrei mai immaginato di ritrovarmi in questa situazione. Quando io e la mia famiglia ci siamo trasferiti in Liberia lo scorso ottobre, per iniziare i due anni di lavoro insieme all’associazione Samaritan’s Purse, l’ebola non era un’emergenza.
Ci siamo trasferiti lì perché Dio ci ha chiamati a servire il popolo della Liberia, ma solo a marzo quando siamo stati avvertiti che l’ebola si stava diffondendo in Liberia abbiamo cominciato a prepararci ad affrontare il peggio.
Non abbiamo ricevuto il nostro primo paziente fino a prima di giugno, ma quando arrivò eravamo pronti. Durante i mesi di giugno e luglio il numero dei pazienti di ebola è cresciuto costantemente (…) e il nostro ospedale si è fatto carico di ogni paziente con grande attenzione e passione. Abbiamo preso tutte le precauzioni per proteggerci da questa malattia seguendo le linee guida per la sicurezza del Msf (Medici senza frontiere, ndr) e del Who (World health organization, ndr).
Dopo aver portato Amber (la moglie, ndr) e i nostri figli all’aeroporto per tornare negli Stati Uniti la domenica mattina del 20 luglio, mi sono buttato nel lavoro ancor più di prima: abbiamo trasferito i pazienti nella nuova unità di isolamento, istruendo e lavorando con il personale delle risorse umane per rispondere ai bisogni del nostro staff.
Tre giorni dopo, mercoledì 23 luglio, mi sono svegliato sentendomi fiacco. Da quel momento la mia vita ha preso una svolta inaspettata, dato che mi fu diagnosticata l’ebola. Mentre giacevo nel mio letto in Libera per i nove giorni seguenti, mi indebolivo e mi ammalavo ogni giorno di più. Ho pregato Dio che mi aiutasse ad essere fedele anche nella malattia. E ho pregato che tramite la mia vita o tramite la mia morte Lui fosse glorificato.
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