Sono passate le due di notte. Sono indecisa se dire l’Ufficio delle letture di oggi, cioè ormai di ieri, insomma quello che avrei voluto dire più o meno una ventina di ore fa, oppure fare finta di niente e aprire con disinvoltura direttamente l’ufficio di domani, che poi ormai è oggi, cioè insomma quello che nei monasteri diranno prima delle lodi, fra qualche ora – almeno in Italia, perché chissà magari col fuso del Giappone sarei un po’ meno in ritardo (non so, non mi sono mai applicata per capire da che parte si gira per contare le ore).
Non è che sia tardi perché sia successo qualcosa di particolare, oggi: è stata una giornata normale, impossibile come nella media. Piena come un uovo di cose da fare; tutte buone, tutte belle, e tutte utilissime per carità. Peraltro ho anche perduto pochissimo tempo, neppure una fila al semaforo: è sabato e non ho lavorato fuori casa. In compenso ho pulito, corretto compiti, cucinato, pulito di nuovo, sistemato un articolo da spedire, giocato, cucinato di nuovo (ma quante volte mangiano, questi miei figli?), pregato, guardato una serie tv con mio marito, e in mezzo telefonato, raccolto informazioni (con un’audace azione di spionaggio industriale sto cercando di scegliere il liceo per un figlio), invitato amici a cena (ma non avevo già cucinato?), lavato i piatti e altre due o tre cosette che devo avere fatto in automatico, perché non me le ricordo più (credo di essere anche andata a correre).
Insomma, ho fatto un sacco di cose, ma l’ufficio delle letture? Il fatto è che essere un laico comporta sempre questa tensione, questo stare in una croce le cui estremità tendono verso le quattro scomodissime direzioni: verso l’alto, Dio, verso il basso, io, e poi lateralmente verso le persone che amiamo, verso il nostro dovere di stato, e altre chiamate con cui la vita, le persone, le situazioni – cioè ancora una volta Dio, sotto altre spoglie – ci interpellano in molti modi.
Lungi da me l’idea di fare classifiche, di fare “a gara di croci”, ma credo, se posso permettermi, che per i consacrati le variabili siano parecchie di meno. C’è un’altra fatica, un’altra negazione di sé, un altro modo di perdere se stessi, ma non c’è quello che io chiamo il martirio dell’equilibrio. Insomma, il duello tra Dio e l’egoismo è lo stesso anche per i consacrati, ma per noi laici più che di un duello si tratta di un triello: Dio, il mio egoismo e le mille cose da fare, il dovere di stato, e le necessità delle persone che sono affidate proprio particolarmente eminentemente a noi.
È evidente che si tratta di cercare di incontrare Dio non nonostante, ma proprio attraverso le cose da fare. Il punto cruciale è, chiaramente, fare le mille cose rimanendo il più possibile in Cristo, fino a obbedire a san Paolo, che ci dice: “sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio”, per non rendere tutto il nostro affannarci vanità.
Ora, queste sono belle parole. Molto belle.
Ma mi permetterei a questo punto di attirare la vostra attenzione sulla penosa situazione della multimadre lavoratrice, la quale, pur ricordando ogni giorno la necessità di ringraziare per la fortuna meravigliosa e niente affatto scontata di avere un lavoro, ricordando questo dicevo, costretta a correre da una parte all’altra della città, finisce per dimenticare invece chiavi, appuntamenti, numero dei figli, dimenticare di mangiare, dimenticare dove ha parcheggiato la macchina e molte altre cose fondamentali, oltre a quelle che sostano permanentemente al numero ventotto-ventinove dell’agenda quotidiana, tipo comprare dei collant che non le cadano, necessità che non salirà mai al rango delle cose da eseguire davvero, le prime undici dodici in alto sulla pagina dell’agenda, fatto per il quale non dovete assolutamente stupirvi se incontrandomi notate in me una strana andatura (mi stanno cadendo le calze).
Essere una laica – permettetemelo – è anche un po’ diverso dall’essere un laico, perché si sa che la donna si fa carico dei problemi di tutti quelli che le capitano a tiro, offre consigli non richiesti anche ai parenti fino al terzo, quarto grado, è l’unica in casa a conoscere l’ubicazione di oggetti necessari alla sopravvivenza di tutta la famiglia (se dovessi morire, il termometro è nella scatola di latta dei biscotti Mellin – nota per mio marito).
Un uomo dice: “cara, vado a letto”, e dopo sei sette minuti esce dalla doccia e, scavalcando camioncini e palloni, va sotto le coperte. Una donna dal momento in cui progetta di andare a dormire a quello in cui può toccare il cuscino con la testa fa svariate volte il giro della casa raccogliendo giocattoli, piegando magliette, struccandosi e cospargendosi di creme (deve dare un senso alla sua mensola del bagno), rimboccando coperte, supervisionando zaini, compilando liste della spesa e bollettini di conti correnti, mandando un ultimo urgentissimo messaggio di incoraggiamento all’amica incinta. E dopo appena due ore può dormire.
Lungi dal criticare la sana lucidità maschile io, come sempre, ammiro la capacità che ha mio marito di tirare dritto all’obiettivo. Quando è ora di fare una cosa si fa, senza distrarsi. È importante, a volte, molto spesso, non rispondere a tutti gli stimoli della realtà, adottare nei suoi confronti una sorta di disobbedienza creativa, saper scegliere a volte come Maria la parte migliore.
Dio, infatti, non coincide con la realtà, e bisogna usare il cervello per maneggiarla bene (il cervello, anche se a volte tendiamo a dimenticarlo, ce lo ha dato Dio, lo ha creato lui e vuole che lo usiamo al meglio).
A volte quindi gli stimoli vanno ignorati, imparando a lasciare indietro qualcosa, mettendo al primo posto la preghiera, non come fine ma come mezzo per cercare Dio, il quale poi, se vuole, “ne darà ai suoi amici nel sonno”, senza che ci affanniamo tanto credendo di avere tutto nelle nostre mani.
Dobbiamo cercare davvero Gesù, dunque, nel nostro piccolo monastero interiore, che ha anche necessità di tempi e spazi riservati nella confusione delle giornate. Dobbiamo non perché obbligati, ma perché non c’è dolcezza più grande che vedere il volto del Signore, il quale si mostra a chi lo cerca davvero.
Guardarlo ci renderà sempre più simili a lui, che ci insegna prima di tutto la sua dolcezza. Con quella si impara a stare in croce senza ribellarsi, a essere buoni, ad accettare qualcosa fatto dagli altri che ci ferisce, irrita o offende senza parlare, come ha fatto Gesù.
Questo è ciò che commuove Dio, questo allontana il principe di questo mondo, lo caccia, perché di fronte all’umiltà il diavolo non ha armi. Guardarlo perché lui è il Logos, è il senso del mondo, è la logica delle cose, e solo tenere lo sguardo fisso su di lui ci permetterà di mettere ordine nella nostra vita, e di renderla davvero feconda.
articolo pubblicato sul blog di Costanza Miriano