Uno studio dello storico italo-americano John Tedeschi descrive l’organizzazione e le procedure adottate dall’Inquisizione romana per la salvaguardia della fede cattolica e nella lotta contro l’eresia, sfatando numerosi luoghi comuni – soprattutto relativi all’arbitrarietà e alla severità dei tribunali inquisitoriali – ed evidenziando i limiti d’interpretazioni purtroppo sedimentate nell’immaginario collettivo.
Il 23 gennaio 1998, con l’apertura degli archivi del Sant’Uffizio – peraltro già disposta dal 1902 per casi particolari e limitati -, si è concluso un lento e prudente processo iniziato nel 1881, quando Papa Leone XIII (1878-1903) volle aprire agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano. “L’apertura del nostro Archivio – ha dichiarato il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – si ispira in realtà al compito stesso assegnato dal Santo Padre alla nostra Congregazione di “promuovere e tutelare la dottrina sulla fede e i costumi di tutto l’orbe cattolico”. Sono sicuro che aprendo i nostri Archivi si risponderà non solo alle legittime aspirazioni degli studiosi, ma anche alla ferma intenzione della Chiesa di servire l’uomo aiutandolo a capire se stesso leggendo senza pregiudizi la propria storia”
Intervistato dallo scrittore Vittorio Messori nel 1984, lo storico Luigi Firpo (1915-1989), esponente di rilievo della cultura laicista, uno dei pochi studiosi che ha avuto accesso anche ai documenti riservati del Sant’Uffizio, si è espresso così: “Sono sicuro che l’apertura di quell’archivio, sinora assai limitata anche per esigenze organizzative, gioverebbe molto all’immagine della Chiesa […]. Aprendo a tutti gli studiosi quelle carte, cadrebbero altri pezzi della abusiva leggenda nera che circonda l’Inquisizione” (2).
L’immagine dell’Inquisizione sta infatti mutando, e in senso favorevole, presso gli specialisti, grazie ai risultati della rinnovata ricerca storica. Inoltre, alcune apprezzabili iniziative editoriali stanno mettendo a disposizione di un vasto pubblico testi poco conosciuti al di fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori.
È questo il caso dell’Elogio della Inquisizione, traduzione della voce Inquisition, scritta dallo storico e giornalista francese Jean-Baptiste Guiraud (1866-1953) per il Dictionnaire apologétique de la foi catholique, edito fra il 1911 e il 1913 (3), nota finora soltanto ai frequentatori di biblioteche specializzate e molto utile per un primo approccio allo studio dell’Inquisizione medioevale, la cui fondazione è fatta risalire a Papa Gregorio IX (1227-1247).
Anche la storiografia sull’Inquisizione spagnola – l’istituzione creata nel 1478 da Papa Sisto IV (1471-1484), su sollecitazione della regina Isabella di Castiglia (1451-1504) e di re Ferdinando d’Aragona (1452-1516) – ha prodotto negli ultimi decenni rilevanti contributi, sostanziati da approfondite ricerche d’archivio, che hanno consentito di superare i pregiudizi di carattere ideologico su questa istituzione e che sono a disposizione del lettore comune, anche in Italia, grazie alle sintesi offerte dall’inglese Henry Arthur Francis Kamen, dal francese Bartolomé Bennassar e dal danese Gustav Henningsen (4).
Una rivisitazione degli studi storici è in corso anche per quanto riguarda l’Inquisizione romana – più precisamente la Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione, o Sant’Uffizio, istituita da Papa Paolo III (1534-1549) nel 1542 -, la cui autorità si estendeva soltanto su una parte della penisola italiana, perché in Sicilia e in Sardegna operava l’Inquisizione spagnola, mentre negli altri domìni asburgici, il Regno di Napoli e lo Stato di Milano, le funzioni inquisitoriali erano svolte dai tribunali episcopali del luogo (5).
Uno studio innovativo
Autore dei “primi studi realmente innovativi sul tema” (6) è John Tedeschi, di cui nel 1997 è stato pubblicato in Italia Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana (7) – raccolta di undici saggi scritti fra il 1971 e il 1988, tutti ampiamente rivisti e aggiornati, nonché corredati di un imponente apparato critico e bibliografico -, che offre finalmente al grande pubblico i risultati di una ricerca ventennale.
Nato a Modena nel 1931, Tedeschi è emigrato negli Stati Uniti d’America all’età di otto anni, ha studiato all’Università di Harvard, dove la sua attenzione si è concentrata sulla diffusione del protestantesimo in Italia, è stato professore associato nelle università di Chicago, dell’Illinois a Chicago e del Wisconsin a Madison, ha lavorato per quasi due decenni alla Newberry Library, sempre a Chicago, dove ha fondato il Center for Reformation Research Studies.
Ha inoltre ricoperto la carica di presidente della Society for Reformation Research e della Sixteenth Century Studies Conference, e ha fatto parte del comitato esecutivo della Renaissance Society of America dal 1971 al 1996.
Quando, nel 1967, ha cominciato a occuparsi dell’Inquisizione romana, ben poco era offerto a chi non volesse fermarsi alle generalizzazioni dello storico statunitense Henry Charles Lea (1825-1909), autore di uno studio monumentale sull’Inquisizione medioevale (8).
Le fonti inquisitoriali, infatti, erano state utilizzate fino ad allora soltanto da quanti si occupavano degli eretici italiani con l’intenzione di studiare non l’Inquisizione ma quanti ne erano stati vittime: “[…] il carattere liberale e anticlericale dell’unificazione italiana – osserva lo storico Adriano Prosperi – ha portato a inseguire un’identità nazionale attraverso la storia della cultura e degli intellettuali che avevano unito l’Italia all’Europa (in particolare, l’Europa protestante e liberale) […]. Insomma, l’autobiografia immaginaria della borghesia risorgimentale incluse da allora una serie di illustri precursori, di spiriti liberi, le cui vicissitudini con la Chiesa e con l’Inquisizione vennero studiate amorevolmente. Ma proprio il carattere ideologico di quell’interesse si rivela nella scarsità di indagini storiche che ne derivava” (9).
Lo studioso italo-americano decide dunque di fondare le sue ricerche sull’esame rigoroso delle molteplici fonti a disposizione per ricostruire correttamente l’iter di un processo inquisitoriale, dalle prime convocazioni alle deliberazioni finali. Fin dall’inizio dei suoi studi, consultando la ricca collezione dei manoscritti conservati nel Trinity College di Dublino, in Irlanda – contenenti sentenze emesse in Italia fra il 1564 e il 1659 – s’imbatte in una serie di elementi che forniscono un quadro nuovo della giustizia inquisitoriale: “il convento o l’abitazione come luoghi prevalenti in cui scontare una pena detentiva; l’importanza attribuita alle circostanze attenuanti e alla consulenza di specialisti nel campo del diritto e della teologia; la relativa mitezza delle sentenze dei processi per stregoneria; il gran numero di casi che si concludevano con abiure sulle gradinate delle chiese; la rarità del ricorso alla pena capitale” (p. 25) e la constatazione che il “carcere perpetuo” non comportava mai l’imprigionamento a vita ma, generalmente, una detenzione di tre anni.
“Un banale fraintendimento della terminologia inquisitoriale ha quindi fuorviato più di uno studioso in buona fede, e contribuito alla cattiva fama dell’istituzione” (p. 26), osserva lo storico, che rievoca anche il caso di uno studio sull’eresia a Mantova, il cui autore aveva scorrettamente sostituito “abiurare” con “abbruciare” tutte le volte in cui la prima espressione compariva nel testo: “E quando un autore successivo si sentì tenuto a parlare di “eccessi” dell’Inquisizione mantovana, la sua fonte fu quel resoconto filologicamente inquinato. È chiaro che simili leggerezze autoperpetuantisi non hanno contribuito a un esame obiettivo dell’argomento” (p. 20).
L’esame delle fonti
Tedeschi non si propone di chiarire le origini della leggenda nera sulla spietatezza e sull’arbitrarietà dell’Inquisizione, rinviando a uno studio specifico sul tema (10), ma prende in esame alcuni fattori che hanno contribuito al perpetuarsi di vecchi stereotipi e di fraintendimenti: “Si va dall’uso improprio delle fonti alle affermazioni non sorrette dai dati di fatto e, in qualche caso, a quelli che appaiono deliberati tentativi di distorcere la realtà” (p. 29), cui si aggiungono la tendenza da parte di alcuni autori a considerare regola le aberrazioni, la presenza di contraddizioni anche in una stessa opera e il disaccordo fra gli storici su punti fondamentali pure se facilmente verificabili sulla base dei documenti consultabili.
Infatti, la gamma di fonti a disposizione degli studiosi è piuttosto ampia, nonostante le gravi perdite subìte dagli archivi dell’Inquisizione romana, distrutti o dispersi in Irlanda, in Belgio, in Francia, in Italia e, in misura minore, negli Stati Uniti d’America, in conseguenza del saccheggio del Sant’Uffizio operato da funzionari napoleonici nel 1810 e dei danni patiti dalle Inquisizioni provinciali di Firenze, di Milano e di Palermo a causa del vandalismo giacobino o della soppressione delle istituzioni religiose.
“La politica della porta chiusa del Sant’Uffizio – osserva Tedeschi – si basa su una decisione burocratica interna e non rappresenta la posizione ufficiale della Chiesa cattolica riguardo all’accesso ai documenti dell’Inquisizione. Raccolte ecclesiastiche provinciali ricche di documenti su tale argomento a Napoli, Pisa, Udine, Firenze e altrove, in misura crescente vengono messe a disposizione degli storici a scopo di ricerca; e innumerevoli codici inquisitoriali conservati presso la Biblioteca Vaticana e l’Archivio Segreto Vaticano sono stati messi a disposizione di studiosi di tutto il mondo, anche sotto forma di microfilm” (p. 214, nota 1).
Alcuni studiosi, anche in anni recenti, hanno sollevato il problema dell’attendibilità dei processi inquisitoriali come documenti storici, e Carlo Ginzburg, in particolare, ha sottolineato il divario di estrazione sociale e culturale che spesso separava giudice e imputato, chiedendosi se tali fonti, pervenuteci attraverso il filtro dei rappresentanti delle classi colte, siano in grado di informarci correttamente sulle idee e sulle affermazioni dell’imputato e dei testimoni (11).
A questa domanda – in merito alla quale è già stato osservato, in occasione dell’esame di particolari fonti inquisitoriali medioevali, che “[…] i verbali degli interrogatori sono assai più pieni di vita e aderenti alla verità di quanto normalmente, ma erroneamente, si creda” (12) – Tedeschi risponde che i più responsabili fra i funzionari del Sant’Uffizio erano consapevoli di questa difficoltà e cercavano di evitare possibili abusi. La raccomandazione di evitare scrupolosamente le domande tendenziose e, in generale, di spingere l’interrogatorio in una direzione prestabilita era ripetuta in continuazione sia nei manuali di teoria dei procedimenti inquisitoriali sia nella corrispondenza fra Roma e i tribunali provinciali.
La Congregazione del Sant’Uffizio, inoltre, vigilava sulle articolazioni locali, imponendo la puntuale applicazione della legislazione e mirando all’uniformità dei procedimenti: “Decisioni capricciose e arbitrarie, abusi di potere e flagranti violazioni dei diritti umani non erano tollerati” (p. 30).
Oltre la leggenda nera
Le ricerche di Tedeschi consentono di sfatare una lunga serie di luoghi comuni. L’Inquisizione, grazie alla prescrizione, sempre rispettata, di mettere per iscritto le fasi della procedura, le deposizioni e le testimonianze – gli inquisitori “[…] non ritenevano di avere niente di vergognoso da nascondere” (p. 97) -, è una delle prime istituzioni del passato su cui è disponibile una quantità di dati tale da rendere impossibile ogni travisamento storico sia sull’organizzazione sia sulla prassi adottata.
Gli inquisitori erano, in genere, persone dotte, oneste e di costumi irreprensibili, poco inclini a decidere in fretta e arbitrariamente la sorte dell’imputato, volti invece ad accordare il perdono al reo e a farlo rientrare in seno alla Chiesa. Diverse garanzie giuridiche a tutela dell’accusato erano parte integrante della procedura inquisitoriale.
È accertato che più di un imputato abbia chiesto e ottenuto il cambiamento della sede e la sostituzione dell’inquisitore che si occupava del suo caso, avendo potuto dimostrarne la mancanza di obbiettività. “Non è un’esagerazione affermare che il Sant’Uffizio fu in certi casi un pioniere della riforma giudiziaria. L’avvocato difensore era parte integrante della sua procedura […], nei tribunali dell’Inquisizione l’imputato riceveva una copia autenticata dell’intero processo […] e disponeva di un ragionevole lasso di tempo per preparare la propria replica” (p. 30).
Inoltre, molti manuali inquisitoriali abbondavano di consigli su possibili strategie difensive.
Nella prassi giudiziaria romana l’uso della tortura era attentamente controllato e sottoposto a una serie di limitazioni: in particolare, occorreva l’autorizzazione del tribunale centrale, che la concedeva soltanto quando i cardinali inquisitori, assistiti da un’équipe di teologi e di specialisti in diritto canonico, ritenevano di aver ricevuto tutte le informazioni importanti sul caso in esame. La tortura doveva essere moderata affinché la vittima, se innocente, potesse tornare a godere la libertà, e, se colpevole, potesse ricevere la giusta punizione.
Sebbene fino al secolo XVII l’Inquisizione, come tutti gli altri sistemi giudiziari europei, non abbia rinunciato a ricorrere alla tortura in quelle particolari situazioni in cui si riteneva che una parte essenziale della verità venisse celata pervicacemente, gli inquisitori, a differenza dei giudici civili, ne facevano uso raramente, ritenendo che fosse un fragile e rischioso strumento, spesso incapace di condurre alla verità, soprattutto perché molti riuscivano a sopportare i tormenti grazie alla loro forza d’animo e fisica (13).
Sebbene si pensi generalmente il contrario, solo una piccola percentuale di procedimenti inquisitoriali si concludeva con la condanna a morte, che era riservata ai pertinaci, non disposti in alcun caso a riconciliarsi con la Chiesa, e ai relapsi, i ricaduti, giudicati colpevoli di eresia già in passato. “I dati disponibili sui rei consegnati dall’Inquisizione al braccio secolare indicano che una percentuale decisamente modesta di essi fu giustiziata” (p. 85).
Fra i primi mille imputati che comparvero davanti al tribunale di Aquileia fra il 1551 e il 1647 solo quattro furono giustiziati. A Milano nella seconda metà del 1500 si contarono dodici esecuzioni capitali per eresia e soltanto una a Modena, nel 1567. Quanto alle oltre duecento sentenze, alcune concernenti più di un imputato, contenute nei manoscritti del Trinity College, solo in tre di esse era invocata l’estrema sanzione, mentre a Roma si contarono novantasette condannati a morte dal Sant’Uffizio fra il 1542 e il 1761.
Dati analoghi emergono dal confronto con l’Inquisizione spagnola, che fra il 1540 e il 1700 ha comminato 820 volte la pena capitale su un totale di 44.000 casi, cioè una percentuale dell’1,9 per cento.
Inoltre, poiché la carcerazione come pena anziché come misura precauzionale durante il procedimento fece la sua comparsa in Europa negli ultimi decenni del 1500, “[…] l’Inquisizione, col suo secolare ricorso alla detenzione ad poenam, dev’essere considerata all’avanguardia anche nel diritto penale, in un’epoca in cui le altre opzioni a disposizione del giudice si riducevano al rogo, alla mutilazione, alle galee e all’esilio” (p. 31).
Basandosi su vari documenti, compresi quelli del processo a Giordano Bruno (1548-1600), nonché su un sopralluogo in prima persona, Luigi Firpo ha ricostruito le condizioni di vita nelle prigioni romane del Sant’Uffizio, demolendo le teorie fantasiose di alcuni autori: “Si scoprirebbe poi che gli Ucciardone e le Rebibbia di oggi sono le vere bolge infernali rispetto alle troppo diffamate celle dell’Inquisizione, dove la vita era ritmata da regolamenti severi ma non disumani. Era, per esempio, prescritto che lenzuola e federe si cambiassero due volte alla settimana: roba da grande albergo…. […] Una volta al mese, i cardinali responsabili dovevano ricevere uno a uno i prigionieri per sapere di che avessero bisogno. Mi sono imbattuto in un recluso friulano che chiese di avere birra al posto del vino. Il cardinale ordinò che si provvedesse, ma, non riuscendo a trovare birra a Roma, ci si scusò con il prigioniero, offrendogli in cambio una somma di denaro perché si facesse venire la bevanda preferita dalla sua patria” (14).
Ai responsabili di reati particolarmente gravi e ripugnanti era riservata invece la detenzione sulle galee, “[…] che possono essere considerate, in un certo senso, l’equivalente delle nostre carceri di massima sicurezza” (p. 117).
Se il rogo, la reclusione “a vita” e i lavori forzati sulle galee sono le sanzioni associate nella mente dei più ai processi dell’Inquisizione, l’esame delle sentenze mostra il predominio di pene molto più lievi. “Con particolare frequenza si incontrano atti di umiliazione pubblica sotto forma di abiure lette sulle gradinate delle chiese, di domenica o in occasione di festività religiose, di fronte a folle di fedeli; multe o servigi a favore di istituzioni caritative; e cicli apparentemente interminabili di preghiere e atti di devozione da compiere per mesi e anni” (p. 119).
Spesso erano comminati gli arresti domiciliari, generalmente congiunti allo svolgimento di attività utili alla comunità e al ricupero morale del reo (15).
Per quanto riguarda la tipologia dei reati si colgono sostanziali differenze fra i due grandi sistemi inquisitoriali dell’età moderna, derivanti dal fatto che l’Inquisizione romana era stata rifondata nel 1542 per fronteggiare la diffusione del protestantesimo nella penisola italiana, mentre quella spagnola era stata istituita più di mezzo secolo prima per affrontare il problema delle false conversioni dall’ebraismo al cristianesimo.
Negli Stati italiani, quindi, il “luteranesimo” fu la preoccupazione maggiore dei funzionari inquisitoriali, finché nel secolo XVII la pratica della magia soppiantò il protestantesimo come capo d’imputazione più comune. Peraltro, l’assidua vigilanza di Roma nei confronti della magia – nella quale raramente erano incluse la stregoneria o il satanismo – non comportò una grande severità in termini di pene. “Come riconosciuto anche da Lea quasi un secolo fa, entrambe le grandi Inquisizioni del Mediterraneo erano assai caute e moderate a questo riguardo, in confronto ai tribunali secolari” (p. 85).
Tedeschi, fra l’altro, contesta la tesi secondo cui il manuale inquisitoriale Malleus maleficarum, scritto dai domenicani tedeschi Heinrich Kramer (1430 ca.-1505) e Jakob Sprenger (1436 ca.-1495) e pubblicato nel 1486, sia stato il testo canonico per la persecuzione dei sospettati di stregoneria nei due secoli seguenti, documentando come una filosofia radicalmente opposta trovasse consensi crescenti nei tribunali del Sant’Uffizio nella seconda metà del 1500 fino a raggiungere dignità di norma con l’Instructio pro formandis processibus in causis strigum, sortilegiorum et maleficiorum, del 1624.
Conclusione
L’Inquisizione ha rappresentato un fenomeno plurisecolare e dalle molteplici caratteristiche a seconda dei luoghi e dei contesti storici nei quali si è esplicato, ma è stata comunque “[…] espressione del passaggio da una società contraddistinta dalla convivenza fra le diverse comunità religiose a un’altra sempre più contrassegnata da conflitti, e […] la risposta della Chiesa e della cristianità alla minaccia rappresentata dall’eresia (Catari e Albigesi) e, successivamente, in Spagna, dalle false conversioni di giudei e musulmani” (16).
Come il ruolo svolto dai tribunali inquisitoriali fu decisivo per assicurare la pace sociale e religiosa in Spagna, così l’Inquisizione romana ha rappresentato nella penisola italiana un bastione invalicabile contro ogni deviazione dottrinale in tempi “[…] in cui la Chiesa – come ricorda il cardinale Ratzinger – ha dovuto difendere la fede dei più piccoli in contesti frequentemente polemici se non manifestamente aggressivi” (17).
La storia di questa istituzione è stata travisata e deformata per secoli, finché accurate ricerche documentarie hanno aperto la strada a lavori scientifici innovativi, anche grazie all’esempio e allo stimolo forniti dall’opera di John Tedeschi. È auspicabile ora che la nuova immagine dell’Inquisizione esca dall’ambito specialistico ed entri a pieno titolo nel patrimonio culturale anzitutto dei cattolici, i quali sono ancora affetti da un ingiustificato complesso d’inferiorità a causa di una scarsa conoscenza della loro storia.
Francesco Pappalardo
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(1) Card. Joseph Ratzinger, “La soglia della verità”, in Avvenire, anno XXXI, n. 19, 23-1-1998, p. 21. Già un secolo fa Papa Leone XIII, dopo aver osservato che, almeno negli ultimi tempi, “[…] si può asserire fondatamente che la scienza storica sembra essere una congiura degli uomini contro la verità” (Epistola Saepenumero considerantes, del 18-8-1883, in Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740, vol. V, Leone XIII (1878-1903), parte prima, 1878-1891, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997, pp. 158-165 [p. 159]), affermava: “I non travisati ricordi dei fatti, se analizzati con animo tranquillo e senza opinioni pregiudiziali, di per se stessi difendono, spontaneamente e magnificamente, la Chiesa e il Pontificato” (ibid., p. 158).
(2) Cit. in Vittorio Messori, Inchiesta sul cristianesimo, Società Editrice Italiana, Torino 1987, p. 27.
(3) Jean-Baptiste Guiraud, Elogio della Inquisizione, a cura di Rino Cammilleri, con un invito alla lettura di Vittorio Messori, Leonardo, Milano 1994 (cfr. la mia recensione in Cristianità, anno XXIII, n. 239, marzo 1995, pp. 24-26). Sull’Inquisizione medioevale vedi anche Leo Moulin, L’Inquisizione sotto inquisizione, a cura dell’Associazione Culturale ICARO, Cagliari 1992; e il mio L’Inquisizione medioevale, in IDIS, Voci per un “Dizionario del Pensiero Forte”, a cura di Giovanni Cantoni e con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 131-136.
(4) Henry Kamen, Inquisition and Society in Spain in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, Weidenfeld and Nicolson, Londra 1985, di cui esiste una successiva traduzione spagnola ampliata, La inquisición española, Editorial Crítica, Barcellona 1985, che modifica radicalmente il giudizio negativo espresso nel 1965 (cfr. L’Inquisizione spagnola, trad. it., Feltrinelli, Milano 1973); nonché Idem, The Spanish Inquisition. A Historical Revision, Yale University Press, New Haven, Connecticut 1998; Bartolomé Bennassar, Storia dell’Inquisizione spagnola dal XV al XIX secolo, trad. it., Rizzoli, Milano 1994; e Gustav Henningsen, L’avvocato delle streghe. Stregoneria basca e Inquisizione spagnola, trad. it., Garzanti, Milano 1990. Una rassegna bibliografica sull’argomento è stata compiuta da Brian van Hove S.J., Oltre il mito dell’Inquisizione, in La Civiltà Cattolica, anno 143, vol. IV, quaderno 3419, 5-12-1992, pp. 458-467, e quaderno 3420, 19-12-1992, pp. 578-588. Cfr. anche Joseph De Maistre (1753-1821), Elogio dell’Inquisizione di Spagna, con prefazione di Rino Cammilleri, Il Cerchio, Rimini 1998; e il mio L’Inquisizione spagnola, in IDIS, Voci per un “Dizionario del Pensiero Forte”, cit., pp. 137-142.
(5) Cfr. Adriano Prosperi, L’Inquisizione: verso una nuova immagine?, in Critica storica, anno XXV, gennaio-marzo 1988, n. 1, pp. 119-145, e Idem, L’Inquisizione romana. Dal declino della mentalità magica ai conflitti interni al clero, alla storia della censura, in Prometeo. Rivista trimestrale di scienze e storia, anno 11, n. 44, dicembre 1993, pp. 18-29, nonché Idem, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1966. Cfr. anche AA.VV., L’Inquisizione romana in Italia nell’età moderna. Archivi, problemi di metodi e nuove ricerche, a cura di Andrea Del Col e Giovanna Paolin, Atti del seminario internazionale di Trieste (18/20-5-1988), Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1991. Sull’Inquisizione spagnola in Italia cfr. Agostino Borromeo, Contributo allo studio dell’Inquisizione e dei suoi rapporti con il potere episcopale nell’Italia spagnola, in Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, anno XXIX-XXX (1977-1978), Roma 1979, pp. 219-276. Sull’attività dei tribunali inquisitoriali a Napoli e a Milano, dove non fu mai accettata l’introduzione dell’Inquisizione spagnola, perché avrebbe minacciato privilegi e libertà tradizionali, cfr. Giovanni Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Sansoni, Firenze 1990; e Romano Canosa, Storia dell’Inquisizione in Italia dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento, 5 voll., Sapere 2000, Roma 1986-1990.
(6) A. Prosperi, L’Inquisizione in Italia, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di Mario Rosa, Laterza, Bari-Roma 1992, pp. 275-320 (p. 293).
(7) Cfr. John Tedeschi, Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1997 (The Prosecution of Heresy. Collected Studies on the Inquisition in Early Modern Italy, Binghamton, New York, 1991). Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’opera.
(8) Cfr. Henry Charles Lea, A History of the Inquisition of the Middle Ages, New York 1887, 3 voll. È significativo che Lea, sebbene poco benevolo nei confronti dell’Inquisizione, abbia scritto che, nel Medioevo, “[…] la causa dell’ortodossia non era altro che la causa della civiltà e del progresso” (Storia dell’Inquisizione. Fondazione e procedura, trad. it. del primo volume, Fratelli Bocca Editori, Torino 1910, p. 118).
(9) A. Prosperi, L’Inquisizione: verso una nuova immagine?, cit., pp. 127-128.
(10) “Tanto la storia quanto il mito sono brillantemente discussi da E[dward]. Peters in Inquisition, New York-London 1988″ (p. 201, n. 3).
(11) Cfr. Carlo Ginzburg, Stregoneria e pietà popolare. Note a proposito di un processo modenese del 1519, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Sezione II. Lettere, storia e filosofia, vol. XXX, 1961, pp. 269-287, e più in generale Idem, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino 1966.
(12) Giovanni Grado Merlo, I registri inquisitoriali come fonti per la storia dei gruppi ereticali clandestini. Il caso del Piemonte basso medievale, in Histoire et clandestinité du Moyen-Âge à la première guerre mondiale. Colloque de Privas (Mai 1977), a cura di M. Tilloy, Gabriel Audisio e Jacques Chiffoleau, Albi 1979, pp. 59-74 (p. 72).
(13) Tedeschi in proposito riporta una considerazione di John Langbein, autore di Torture and the Law of Proof. Europe and England in the Ancien Régime (Chicago-Londra 1977, p. 185): “Dobbiamo tenere presente che nessun aspetto della condizione umana è mutato così radicalmente, nel ventesimo secolo, come la tolleranza della sofferenza fisica. I comuni analgesici e l’anestesia hanno in gran parte eliminato dalla nostra vita l’esperienza del dolore somatico. A causa di malattie, parti, interventi chirurgici e odontoiatrici i nostri antenati si abituavano a livelli di sofferenza che per noi risultano incomprensibili” (p. 300, nota 113).
(14) Cit. in V. Messori, Inchiesta sul cristianesimo, cit., p. 27.
(15) Lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642) fu condannato agli arresti domiciliari – scontati nella sua villa di Arcetri, presso Firenze, dove continuò a ricevere gli allievi e potè completare la stesura di alcune opere – e alla recita settimanale dei salmi penitenziali: cfr. Luciano Benassi, Galileo Galilei. La leggenda del “martire” della scienza moderna, in AA. VV., Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, a cura di Franco Cardini, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1994, pp. 329-352.
(16) Marco Invernizzi e Oscar Sanguinetti, Integrazioni bibliografiche, in J.-B. Guiraud, Elogio della Inquisizione, cit., pp. 165-189 (pp. 167-168), che riprendono una considerazione di Henry Kamen.
(17) Cad. J. Ratzinger, art. cit.
Articolo apparso sul n. 278 di Cristianità