Era nata in Siria, ad Aleppo, il 15 novembre 1904, in una famiglia benestante, preceduta da una sorella e seguita da un fratello. Ebbe un’infanzia gioiosa e seria, educata dalle suore armene dell’Immacolata Concezione, sposa a soli diciotto anni di un uomo molto più maturo di lei, industriale e commerciante dal fiuto e dall’accortezza levantina. Una splendida dimora, viaggi in Europa, riunioni mondane, toilette impeccabili, abilità e fortuna nel gioco.
Tutto qui, se non ci fosse stata una molla segreta che ardeva nel cuore di Mathilde Chelhot, giovane innamorata sposa di Georges Elias Salem: l’amore di Dio, l’amore per il suo popolo e per i bisognosi.
Tutti i profumi orientali e i suoi sapori promanano da questa figura di donna che si sarebbe potuta rinchiudere in un ambiente alto borghese e godersi mollemente la sua fortuna. I profumi orientali invece si coniugano con i profumi delle più alte virtù cristiane e sociali. Il dolore ben presto attraversò la sua vita: i due coniugi non avrebbero potuto donare la vita a un figlio, infatti Georges era colpito da una grave forma diabetica che gli rendeva difficile anche la vita commerciale oltre che quella relazionale. Mathilde allora divenuta la consigliera del marito, si trasformò in un’accorta donna d’affari, capace di sostituirlo nella direzione delle diverse aziende e, soprattutto, nell’apertura di nuovi affari o vincoli commerciali.
La prosperità inondò ancora di più la loro casa, aperta alla leggendaria ospitalità orientale, arricchita dallo humour e dalla grazia della padrona di casa. Tutto ciò subì però una grave scossa quando Mathilde, per fedeltà allo sposo, si distaccò dagli amati familiari, in seguito a operazioni commerciali non condivise.
La fede muoveva i due coniugi e apriva loro gli occhi sulla realtà del loro Paese: intuirono che il futuro sarebbe stato legato al lavoro professionale, cui i giovani si sarebbero dovuti preparare per potersi mantenere insieme con le loro famiglie.
Georges ben presto soccombette alla malattia e Mathilde si ritrovò, ancor giovane e inconsolabile, a rifiutare i diversi partiti che le si presentavano, insieme alla prospettiva anche di una maternità. Trovò la sua strada consacrandosi a Dio nel servizio continuo del prossimo, divenne terziaria francescana e si dedicò totalmente all’opera sognata dal consorte, la Fondazione Georges Elias Salem, a favore della gioventù disagiata che avrebbe trovato il modo per vivere dignitosamente apprendendo un mestiere.
Non fu facile per Mathilde destreggiarsi fra finanzieri, consulenti, uomini di Chiesa, ma non apparteneva alla schiera delle donne remissive. Anzi, reagiva sempre con vigore, tuttavia ponderando. Se a Mathilde stava a cuore la formazione professionale, ancora di più prediligeva l’aspetto nettamente cristiano, l’opera quindi passò con sua grande gioia ai salesiani che sempre considerarono i due versanti della persona umana: rivolgerla a Dio ma attrezzata per affrontare la storia.
La scoperta dell’Opera dell’Amore Misericordioso dilatò ancora di più l’animo di Mathilde e rese la sua preghiera più viva, più desiderosa del bene di tutti. Il suo sguardo ecumenico, in tempi in cui tale atteggiamento era guardato con sospetto, si fece ancora più attento, trasparente, accogliente. Seguì coerentemente la sua promessa di terziaria francescana e divenne povera, donando persino la casa in cui abitava, profondendo le sue ricchezze per sostenere le fasce più deboli del Paese. Mathilde portava in sé l’impronta delle donne dei primi secoli della vita della Chiesa che l’incitavano a donarsi, a perdere tutto.
Donna vigorosa e sempre attiva, Mathilde avvertì in sé qualche problema di salute che rivelò, a una diagnosi più attenta, la sua natura tumorale, fin dall’inizio grave. Se la sua prima reazione fu un «Grazie Signore!», il suo atteggiamento prima di trasformarsi in calmo e docile passò attraverso la rabbia e il furore di chi si vede sottratta la vita e mutati i parametri quotidiani. Seguirono anni di sofferenza, di viaggi all’estero, a Parigi, negli Stati Uniti, nel tentativo di arginare l’avanzare del male. Ma tutto fu inutile. Mathilde peggiorava continuamente.
Comprese così che il suo dono non doveva passare solo per i suoi beni ma per quel bene che era la sua stessa esistenza. E nella preghiera seppe compiere il passo dell’accettazione e della restituzione della vita nelle mani di Dio. Lo spogliamento fu totale. L’infaticabile manager, la donna energica e volitiva per il servizio altrui si ritrovò debole e impotente. Redasse il suo testamento, riaffidò ai salesiani l’opera, che tutt’ora gestiscono, e si dispose a attendere il suo passaggio, la sua Pasqua.
Nel momento cruciale del passaggio, attorniata dai familiari e dal grande amico, il vescovo Isidoro Fattal, Mathilde si dimostrò serena e tranquilla, consapevole di varcare la soglia del tempo. Era il 27 febbraio 1961 quando l’amico vescovo le rese l’estremo saluto con poche parole: «Santa Mathilde».
In questi tempi, chiusi i processi diocesani, siamo vicini al giudizio della Chiesa, che sta considerando la bellezza e il profumo dell’agape donato da una donna siriana non solo al suo Paese ma all’umanità intera.
Fonte: L’Osservatore Romano