Nel programma dell’imminente viaggio di papa Francesco in Africa avrà un posto di rilievo la visita al santuario dei martiri dell’Uganda, a Namugongo, con la celebrazione di una messa, sabato 28 novembre. Ma pochissimi sanno e quasi nessuno racconta come e perché questi martiri furono uccisi. Per saperlo, basta però aprire il martirologio romano.
Lì si legge che “san Carlo Lwanga e i dodici compagni martiri, di età compresa tra i quattordici e i trent’anni, appartenenti alla corte regia dei giovani nobili o alla guardia del corpo del re Mwanga, neofiti o fervidi seguaci della fede cattolica, essendosi rifiutati di accondiscendere alle turpi richieste del re, sul colle di Namugongo in Uganda furono alcuni trafitti con la spada, altri arsi vivi nel fuoco”.
Dove per “turpi richieste” si devono intendere le brame omosessuali del re.
Il loro martirio avvenne nel 1886 nell’allora regno indipendente del Buganda, da poco evangelizzato dai Padri Bianchi.
Carlo Lwanga e i dodici compagni furono beatificati il 6 giugno 1920 da Benedetto XV e canonizzati l’8 ottobre 1964 da Paolo VI, in pieno Concilio Vaticano II.
Sul luogo del loro martirio fu eretto un santuario, inaugurato da Paolo VI durante la sua visita in Uganda nel 1969. E un altro ne fu costruito poco distante dalla Chiesa anglicana, che ebbe anch’essa i suoi martiri, in quegli anni di eccidio di giovani convertiti al cristianesimo e anche all’islam.
Nel rito cattolico romano, la memoria liturgica di san Carlo Lwanga e dei dodici compagni martiri è fissata al 3 giugno.
E con studiata coincidenza, proprio il 3 giugno del 2003 la congregazione per la dottrina della fede, con la firma dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, ha emesso uno dei documenti più citati e contestati nell’attuale discussione sulla posizione della Chiesa nei confronti degli omosessuali e della legalizzazione delle loro unioni:
In questo documento si legge:
“La Chiesa insegna che il rispetto verso le persone omosessuali non può portare in nessun modo all’approvazione del comportamento omosessuale oppure al riconoscimento legale delle unioni omosessuali”.
Nella tradizione catechistica cattolica i rapporti omosessuali continuano a figurare tra i quattro peccati che “diconsi gridar vendetta al cospetto di Dio” (secondo la terminologia del catechismo di san Pio X) o che “gridano verso il Cielo” (come nel catechismo di Giovanni Paolo II del 1992), con la denominazione di “peccato dei sodomiti”.
Ma questa tradizione sembra oggi caduta nel dimenticatoio.
Il che non toglie che papa Francesco non è tenero quando prende di punta le giustificazioni ed esaltazioni correnti della pratica omosessuale.
Solo quest’anno vi si è scagliato contro più volte. Ha denunciato ripetutamente “le nuove colonizzazioni ideologiche che cercano di distruggere la famiglia”, colonizzazioni da lui identificate soprattutto nella “teoria del gender”, a proposito della quale ha detto:
“Io mi domando se la cosiddetta teoria del ‘gender’ non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Sì, rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione”.
In particolare, Francesco ha denunciato più volte che questa “colonizzazione ideologica” è esercitata soprattutto contro le nazioni africane, subordinando gli aiuti finanziari all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso. Una denuncia espressa anche nel documento finale del sinodo dei vescovi dello scorso ottobre.
Si può quindi prevedere che papa Francesco darà nuovamente voce a questa denuncia quando in Uganda celebrerà la memoria di san Carlo Lwanga e dei suoi dodici compagni, martirizzati per aver difeso la propria castità.
Se così avverrà, sarà interessante verificare se e quanto tale reiterata denuncia intaccherà il perdurante dominio del “brand” mondiale del pontificato di Francesco, il suo celeberrimo “Chi sono io per giudicare?” applicato agli omosessuali.
Fonte: Settimo Cielo