I sì sono stati tra 178 e 190, poco sopra il quorum dei due terzi dei voti – 177 – richiesti per l’approvazione. I no tra 64 e 80. È andata così, nel pomeriggio di sabato 24 ottobre, la votazione dei tre paragrafi sul punto più controverso, la comunione ai divorziati risposati. O meglio: il “discernimento e integrazione” nella Chiesa dei divorziati e risposati civilmente, senza che mai in tali paragrafi compaia una sola volta la parola “comunione”.
Il testo integrale della “Relatio”, con al termine i voti pro e contro, paragrafo per paragrafo:
Ed ecco qui di seguito i tre paragrafi sui divorziati risposati, seguiti da alcune considerazioni.
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DISCERNIMENTO E INTEGRAZIONE
84. I battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni occasione di scandalo. La logica dell’integrazione è la chiave del loro accompagnamento pastorale, perché non soltanto sappiano che appartengono al Corpo di Cristo che è la Chiesa, ma ne possano avere una gioiosa e feconda esperienza. Sono battezzati, sono fratelli e sorelle, lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti. La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate. Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo. Quest’integrazione è necessaria pure per la cura e l’educazione cristiana dei loro figli, che debbono essere considerati i più importanti. Per la comunità cristiana, prendersi cura di queste persone non è un indebolimento della propria fede e della testimonianza circa l’indissolubilità matrimoniale: anzi, la Chiesa esprime proprio in questa cura la sua carità.
85. San Giovanni Paolo II ha offerto un criterio complessivo, che rimane la base per la valutazione di queste situazioni: “Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C’è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido” (FC, 84). È quindi compito dei presbiteri accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo. In questo processo sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno.
Inoltre, non si può negare che in alcune circostanze “l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate” (CCC, 1735) a causa di diversi condizionamenti. Di conseguenza, il giudizio su una situazione oggettiva non deve portare ad un giudizio sulla “imputabilità soggettiva” (Pontificio Consiglio per i testi legislativi, Dichiarazione del 24 giugno 2000, 2a). In determinate circostanze le persone trovano grandi difficoltà ad agire in modo diverso. Perciò, pur sostenendo una norma generale, è necessario riconoscere che la responsabilità rispetto a determinate azioni o decisioni non è la medesima in tutti i casi. Il discernimento pastorale, pure tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni. Anche le conseguenze degli atti compiuti non sono necessariamente le stesse in tutti i casi.
86. Il percorso di accompagnamento e discernimento orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio. Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cf. FC, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad
una risposta più perfetta ad essa.
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Della “comunione” non c’è dunque nemmeno la parola, in questi tre paragrafi, pur nella ricchezza di “discernimento e integrazione” proposta per i divorziati risposati.
Ma c’è anche un altro paradosso in questo voto, arrivato dopo due anni abbondanti di discussione infinita.
Il paradosso è che è andato a cadere su una soluzione già messa in campo dai due papi precedenti in forma addirittura più esplicita, facendo essi sì parola della “comunione”
Di Giovanni Paolo II la “Relatio finalis” del sinodo – come già prima il circolo minore di lingua tedesca – ha ripescato il suggerimento di “discernere le situazioni”, una delle quaIi era così esemplificata nella “Familiaris consortio” del 1981: “Ci sono coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il loro precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido”.
In ogni caso, nella “Familiaris consortio” Giovanni Paolo II escludeva qualsiasi accesso alla comunione rimanendo valido il primo matrimonio, tranne per chi nella seconda convivenza vivesse come fratello e sorella.
Quanto a Benedetto XVI, anche lui, già da prefetto della congregazione per la dottrina della fede, partiva da un caso analogo: quello di chi è in coscienza convinto che il suo matrimonio celebrato in chiesa è nullo ma trova preclusa la via di una sentenza canonica che lo definisca tale.
In casi come questo, scrisse Joseph Ratzinger nel 1998 in un articolo che fece ripubblicare da papa nel 2011, “non sembra in linea di principio esclusa l’applicazione della ‘epikeia’ in foro interno”.
E così proseguiva:
“Molti teologi sono dell’opinione che i fedeli debbano assolutamente attenersi anche in ‘foro interno’ ai giudizi del tribunale a loro parere falsi. Altri invece ritengono che qui in ‘foro interno’ sono pensabili delle eccezioni, perché nell’ordinamento processuale non si tratta di norme di diritto divino, ma di norme di diritto ecclesiale. Questa questione esige però ulteriori studi e chiarificazioni. Dovrebbero infatti essere chiarite in modo molto preciso le condizioni per il verificarsi di una ‘eccezione’, allo scopo di evitare arbitrii e di proteggere il carattere pubblico – sottratto al giudizio soggettivo – del matrimonio”.
Nell’ottobre del 2013 il cardinale Gerhard Müller, prefetto della congregazione per la dottrina della fede e ratzingeriano di ferro – curatore dell’opera omnia del papa emerito – è tornato sull’argomento in un articolo su “L’Osservatore Romano”, optando per la più rigida tra le due strade:
“Se i divorziati risposati sono soggettivamente nella convinzione di coscienza che il precedente matrimonio non era valido, ciò deve essere oggettivamente dimostrato dalla competente autorità giudiziaria in materia matrimoniale. Il matrimonio non riguarda solo il rapporto tra due persone e Dio, ma è anche una realtà della Chiesa, un sacramento, sulla cui validità non solamente il singolo per se stesso, ma la Chiesa, in cui egli mediante la fede e il battesimo è incorporato, è tenuta a decidere”.
Müller rimandava però, nella stessa pagina dell’”Osservatore”, al testo sopra citato di Ratzinger, che manteneva aperta a “ulteriori studi e chiarificazioni” anche l’altra strada, quella di possibili eccezioni in “foro interno”.
E due anni dopo, in questo sinodo, Müller ha optato a un certo punto anche lui per la via più possibilista messa in campo dal suo maestro Ratzinger, ipotizzando assieme a tutti gli altri componenti del circolo tedesco un “cammino di discernimento” dei singoli casi che potesse condurre “nel ‘forum internum’ a chiarire in che misura è possibile l’accesso ai sacramenti”.
Qui sì il riferimento alla comunione – “l’accesso ai sacramenti” – era esplicito. Ma nella “Relatio finalis” del sinodo è sparito, dopo che era stato sottoposto a critiche serrate nell’aula sinodale. Critiche di cui ha fatto testo questa intervista dell’arcivescovo di Philadelphia Charles Chaput, il più votato nell’elezione del 22 ottobre del nuovo consiglio ordinario del sinodo:
> Chaput on the Synod: “Very Positive,” but Not Problem-Free
Con il che il sinodo è ritornato alla prima delle due vie ipotizzate da Ratzinger nel 1998 e nel 2011, quella secondo cui non basta ritenere in coscienza nullo un matrimonio, per accedere alla comunione, ma occorre che tale nullità sia oggettivamente decretata dalla competente autorità giudiziaria.
Nullità che da qui in avanti sarà enormemente più facile veder decretata, se diventerà realtà la radicale riforma dei processi matrimoniali messa in opera da papa Francesco, tutto da solo, prima dell’apertura di questo stesso sinodo.
In ogni caso, la “Relatio” non ha alcun valore deliberante. È una semplice proposta offerta dal sinodo al papa. Toccherà a lui darle seguito.
E intanto, ecco il discorso tenuto in aula sinodale da Francesco, dopo le votazioni del documento finale:
articolo pubblicato su Settimo Cielo