Mio caro Malacoda, preparati alla riabilitazione di Erode. La giustificazione sociale dell’infanticidio non sarà un successo facilmente raggiungibile. Avremo qualche problema “morale” a condurre questa campagna mediatica e culturale in parallelo con quella sulla pedofilia, ma abbiamo da tempo posto in essere tutte le premesse pratiche che la rendono praticabile, basta indurre dal vissuto ormai moralmente accettato dalla stragrande maggioranza delle società occidentali evolute i princìpi che lo sostengono, ancorché sottintesi.
Si tratta della solita questione di chi invoca la fine dell’ipocrisia in campo politico e della morale pubblica, ma non sa o non osa farlo in quello teoretico o dei cosiddetti “valori”. È il coraggio del pensiero, e delle ultime conseguenze delle nostre libertà, quello che manca.
Per fortuna alcune menti “illuminate” ci confortano. Come quella del professor Eduard Verhagen, un olandese senza remore intellettuali e senza peli sulla lingua (sullo stomaco pare abbondino) che teorizza apertamente non solo la liceità dell’infanticidio, ma anche la sua convenienza rispetto all’aborto tardivo. Abbiamo, insomma, il diritto di sopprimere un bambino terminale, malformato o handicappato perché la sua non sarebbe una vita degna.
Sinceramente non capisco l’indignazione di chi si scandalizza o anche solo si stupisce per questa cristallina, sotto l’aspetto logico, affermazione. Se l’aborto è diventato un “diritto” della madre (questo le persone più accorte non lo dicono, ne parlano come di una tragedia, ma la mentalità che l’ha legalizzato lo considera tale), era prima o poi inevitabile che anche il bambino diventasse un diritto dei genitori (qui si innesta una contraddizione linguistica, perché non esiste genitore finché non c’è un bambino, ma lasciamo perdere).
Ma se un essere non è soggetto sorgente di diritto in sé, bensì oggetto di un diritto altrui, il titolare del diritto ne deve poter disporre totalmente. Se il figlio è un mio diritto, il bimbo è mio e me lo gestisco io finché non acquista lo status di persona autonoma. E un neonato handicappato, al pari di un feto, non lo è.
Giustamente, per non urtare troppo la sensibilità sentimentale di chi vive nelle società che si richiamano pur sempre ai “diritti dell’uomo”, questo potere di eliminazione preferiamo chiamarlo eutanasia, bella morte.
E, come dice il professor Verhagen, «perché l’eutanasia non dovrebbe essere permessa come alternativa all’aborto? Che differenza morale c’è?». O, per essere più adamantinamente espliciti, come sanno essere due scienziati italiani: «Se pensiamo che l’aborto è moralmente permesso perché i feti non hanno ancora le caratteristiche che conferiscono il diritto alla vita, visto che anche i neonati mancano delle stesse caratteristiche dovrebbe essere permesso anche l’aborto post nascita». Il ragionamento di Alberto Giubilini e Francesca Minerva non fa una grinza, salva la validità della premessa.
Certo, qualcuno potrebbe sempre chiedere non “chi è nato?”, ma almeno “che cosa è nato?”. Che tipo di essere? Un individuo di quale specie? Ma non ti preoccupare, con la teoria del gender abbiamo moltiplicato i sessi, troveremo una soluzione anche per classificare gli esseri umani senza disturbare le coscienze con il ribrezzo evocato dalla parola schiavitù. A patto che prima qualcuno non si inventi una soluzione finale anche per noi.
Tuo affezionatissimo zio Berlicche
articolo pubblicato su Tempi.it