Roma (AsiaNews) – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Lega araba hanno fretta di lanciare un’azione punitiva contro la Siria: essa è colpevole, ai loro occhi, di aver usato armi chimiche contro la popolazione della periferia di Ghouta (Damasco), lo scorso 21 agosto. Ad accusare la Siria vi sono i ribelli che hanno diffuso su internet immagini agghiaccianti di persone morte asfissiate, di bambini avvolti nel sudario, di giovani in preda a convulsioni o con la maschera di ossigeno.
Quasi subito il tam tam dei media ha ricordato che con l’uso di armi chimiche si era attraversata la “linea rossa” posta da Obama per un intervento militare contro Damasco. Alle dichiarazioni Usa – dapprima timide, poi sempre più “sicure” – si sono aggiunte quelle della Gran Bretagna, poi quella della Francia, della Turchia, del Canada, dell’Australia e della Lega araba.
Contro l’intervento vi sono Russia, Cina, Iran, da sempre alleati di Damasco. In modo più debole, anche Italia, Germania e Polonia si sono detti contrari all’azione militare, privilegiando l’azione politica.
Mentre la flotta Usa si sta piazzando davanti alle coste siriane, in queste ore si sta decidendo anche la modalità dell’intervento: durerà solo pochi giorni; colpirà obbiettivi mirati (comunicati dai ribelli); non servirà a far cadere Assad; non frenerà la conferenza di pace che l’Onu e la Lega araba stanno con lentezza preparando. Anzi, secondo fonti arabe, un attacco contro la Siria faciliterà il varo di tale conferenza!
Dal giorno dell’attacco di Ghouta fino ad oggi vi è stato un crescendo di dichiarazioni, di minacce e promesse per punire i “crimini contro l’umanità”, come è designato l’uso di armi chimiche dall’Onu. Allo stesso tempo vi è stato un continuo scivolare verso l’ovvia conclusione che il responsabile dell’attacco chimico è il regime di Damasco.
I Paesi interventisti hanno prima domandato un’inchiesta delle Nazioni unite; poi, quando Siria e ribelli hanno accettato la presenza degli ispettori – garantendo il cessate-il-fuoco – gli stessi Paesi hanno detto che “è troppo tardi” e che occorre intervenire perché “quasi sicuramente” Damasco era responsabile dell’attacco.
Infine, ieri sera, Joe Biden, vicepresidente Usa, ha detto che è stato il governo siriano “senza alcun dubbio”. Lo stesso ha fatto David Cameron, premier britannico. Eppure qualche dubbio ce l’abbiamo tutti.
Lo scorso 25 agosto, parlando ai fedeli in piazza san Pietro, papa Francesco ha espresso “grande sofferenza e preoccupazione ” per la “guerra fra fratelli” in Siria. Egli ha anche chiesto alla comunità internazionale che “si mostri più sensibile verso questa tragica situazione e metta tutto il suo impegno per aiutare l’amata Nazione siriana a trovare una soluzione ad una guerra che semina distruzione e morte”.
È proprio in nome di questa “sensibilità” – che porta con sé ragionevolezza e solidarietà – che mettiamo in luce alcune contraddizioni che ci rendono contrari all’attacco programmato con tanta velocità, ma senza troppo intelletto.
Per gli Usa, la “prova” che Damasco ha lanciato le armi chimiche viene dall’intercettazione di un dialogo telefonico di una personalità del ministero siriano degli esteri che domandava notizie su un attacco con armi chimiche: una prova forse indiretta, ma insufficiente. Tanto più che tali “prove” non sono state finora condivise con nessuno, neanche con l’Onu e quel che si sa viene da anonime dichiarazioni fatte ad alcuni media.
All’opposto vi sono invece dichiarazioni e documentazioni satellitari della Russia che mostrano due missili con testata chimica lanciati da una zona dei ribelli, Douma, e finiti su Ghouta, dove hanno ucciso centinaia di persone.
Gli investigatori Onu presenti in Siria hanno cominciato il loro lavoro di raccolta di prove sull’uso di armi chimiche. All’inizio hanno avuto difficoltà perché – nella zona controllata dai ribelli – sono stati oggetto di qualche colpo di cecchino.
La foga nel voler lanciare l’attacco fa dimenticare che essi sono là per vedere se vi è stato un attacco chimico e (magari, ma non è nei loro compiti) raccogliere indizi sul possibile responsabile.
Ma Usa e Gran Bretagna hanno svilito tali ricerche, dicendo che dopo qualche giorno le prove di un attacco chimico si volatilizzano. In realtà, secondo gli studiosi, tracce di gas sarin rimangono attaccati nell’aria, sulle pareti, sui capelli, sulla pelle delle vittime e possono rimanere per mesi. Attendere la conclusione dell’inchiesta Onu, dunque può far luce su tanti aspetti della vicenda.
Tanto più che vi sono esperti militari e medici che mettono in dubbio anche la veridicità delle immagini mostrate dai ribelli: poiché il gas sarin rimane attaccato e attivo sulla pelle dei colpiti, come mai i volontari e i medici che si vede curare le vittime sono ritratti tranquillamente senza alcuna maschera anti-gas? E come mai ci si muove adesso per punire i responsabili della strage atroce di Ghouta, ma si sono lasciate morire oltre 100mila persone in due anni di guerra civile, senza scandalizzarsi allo stesso modo?
A noi sembra che non sia “troppo tardi” per lasciare all’Onu il tempo dell’inchiesta, anche perché proprio oggi Ban Ki-moon ha detto che i suoi esperti hanno fatto “valide scoperte”.
Ci pare fuori luogo (o di testa) il dire che un attacco militare facilita la conferenza di pace. L’attacco militare aiuterebbe certo i ribelli, che in questo momento perdono sempre più terreno, nonostante il grande aiuto bellico degli Stati occidentali, di Arabia saudita e Qatar.
In più, il rafforzamento del fronte dell’opposizione, non significa automaticamente un aiuto alla sola parte laica del Free Syrian Army, ma anche a quella jihadista, legata ad Al-Qaeda.
Uno dei motivi per cui non si riesce a varare la conferenza di pace è proprio il conflitto fra queste due anime, quella laica e quella islamista, su chi debba rappresentare l’opposizione. L’attacco militare indebolirebbe forse Assad, ma non risolverebbe il problema che è interno ai ribelli, anzi lo acuirebbe.
Infine una domanda sui possibili scenari medio-orientali. A livello geopolitico vi è il rischio di una guerra nella regione, se non mondiale, con Siria, Libano (Hezbollah), Iran, Russia, Cina da una parte e Usa, Francia, Gran Bretagna, Israele, Arabia saudita, Qatar, Turchia, ecc. dall’altra.
A livello locale non si può immaginare cosa può succedere in Siria, ora che è divenuta il feudo di molti integristi musulmani: alcuni parlano di sbriciolamento secondo confini etnici, altri che nascerà un Kurdistan con pezzi di Siria, Iraq, Turchia…
In ogni caso un attacco militare adesso sarebbe il perfetto innesco per una violenta instabilità del Medio oriente della durata di molti anni. Con il risultato di impoverire questi Paesi delle menti migliori della società, siano essi cristiani o musulmani.