Il giallo continua e – nella bandiera vaticana – sta ormai sommergendo il bianco. Infatti le dichiarazioni di ieri di mons. Georg Gaenswein, sullo “status” di Benedetto XVI e di Francesco, sono dirompenti (don Georg è segretario di uno e Prefetto della Casa pontificia per l’altro). A questo punto non si capisce più cosa è accaduto in Vaticano nel febbraio 2013 e cosa sta accadendo oggi. Prima di vedere queste dichiarazioni riassumo la vicenda che ha messo la Chiesa in una situazione mai vista.
STRANA RINUNCIA
Dopo anni di durissimi attacchi, l’11 febbraio 2013 Benedetto XVI annuncia la sua clamorosa “rinuncia”, sui cui motivi reali sono lecite molte domande (aveva iniziato il suo pontificato con una frase clamorosa: “Pregate per me, perché io non fugga per paura davanti ai lupi”).
Peraltro, a tre anni e mezzo di distanza, si è potuto appurare che non c’erano problemi di salute incombenti, né di lucidità.
La sua “rinuncia” fu formalizzata con una “declaratio”, in un latino un po’ sgangherato (quindi non scritto da lui) e senza richiamare – come sarebbe stato ovvio – il canone del Codice di diritto canonico che regola la stessa rinuncia al papato.
Una svista? Una scelta? Non si sa. In ogni caso la rinuncia al papato non era una novità assoluta. Ce ne sono state altre, in duemila anni, seppure molto rare. Quello che non c’è mai stato è un “papa emerito” perché tutti quelli che hanno lasciato sono tornati al loro status precedente.
Invece Benedetto, circa dieci giorni dopo la rinuncia, e prima dell’inizio della sede vacante, fece sapere – sconfessando anche il portavoce – che egli sarebbe diventato “papa emerito” e sarebbe rimasto in Vaticano.
UNO SCRITTO RISERVATO?
Tale inedita scelta non è stata accompagnata da un atto che la formalizzasse e definisse il “papato emerito” dal punto di vista canonistico e teologico.
E questo è molto strano. Così è rimasta indefinita una situazione delicatissima e dirompente. A meno che vi sia qualcosa di scritto che però è rimasto riservatissimo…
Del resto secondo gli addetti ai lavori la figura del “papato emerito” non c’entra nulla con l’episcopato emerito, istituito dopo il Concilio, in quanto l’episcopato è il terzo grado del sacramento dell’ordine e – quando un vescovo a 75 anni rinuncia alla giurisdizione su una diocesi – resta sempre vescovo (la Chiesa ha precisamente codificato in un atto ufficiale tutte le prerogative dell’episcopato emerito).
Il papato invece non è un quarto grado dell’ordine e i canonisti hanno sempre ritenuto che rinunciandovi si potesse tornare solo vescovi (così è stato per duemila anni).
Invece papa Ratzinger – uomo di raffinata dottrina – è “papa emerito” e ha conservato sia il nome Benedetto XVI che il titolo “Santo Padre” e pure le insegne pontificie nello stemma (cosa che ha stupito perché in Vaticano i simboli sono molto importanti).
Tutto questo non certo per vanità personale. Ratzinger è famoso per il contrario: ha sempre vissuto come un peso le cariche e fece di tutto per non essere eletto papa.
La domanda che dunque rimbalza, da tre anni, nei palazzi vaticani, è questa: si è dimesso davvero o – per ignote ragioni è ancora papa, sia pure in una forma inedita?
Ad alimentare il mistero c’è pure il discorso di commiato che egli fece nell’udienza del 27 febbraio 2013, nel quale – rievocando il suo “sì” all’ elezione, nel 2005 – disse che era “per sempre” e spiegò:
“Il ‘sempre’ è anche un ‘per sempre’ – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo”.
Erano parole che avrebbero dovuto mettere tutti sul chi va là (si trattava di una rinuncia al solo “esercizio attivo” del minister petrino? Era plausibile?).
Ma, in quel febbraio-marzo 2013, tutti si guardarono bene dall’andare a chiedere al papa il perché della sua rinuncia, il senso di quelle sue parole del 27 febbraio e la definizione della carica di “papa emerito”.
DUE PAPI?
Lo stesso papa Francesco – eletto il 13 marzo 2013 – si trovò in una situazione inedita che poi lui contribuì a rendere ancora più enigmatica, fin dalla sera dell’elezione, perché si affacciò dalla loggia di San Pietro senza paramenti pontifici e definendosi sei volte “vescovo di Roma”, ma mai papa (oltretutto non ha messo il pallio – simbolo dell’incoronazione pontificia – nello stemma).
Come se non bastasse Francesco ha continuato a chiamare Joseph Ratzinger: “Sua Santità Benedetto XVI”.
Insomma c’era un papa regnante che non si definiva papa, ma vescovo e che poi chiamava papa colui che – stando all’ufficialità – non era più papa, ma era tornato vescovo. Un groviglio incomprensibile.
La Chiesa, per la prima volta nella storia, si trovava con due papi: a dirlo fu lo stesso Bergoglio, nel luglio 2013, sul volo che dal Brasile lo riportava in Italia.
In seguito qualcuno deve avergli spiegato che – per la divina costituzione della Chiesa – non possono esserci due papi contemporaneamente e allora ha ripiegato, nelle successive occasioni, sull’analogia con l’“episcopato emerito”. Ma anche lui sa che non c’è nessuna analogia, per le ragioni che ho detto sopra e perché non c’è nessun atto formale di istituzione del “papato emerito”.
IPOTESI
Qualche canonista ha cercato di decifrare – dal punto di vista giuridico e teologico – la nuova, inaudita situazione.
Stefano Violi, studiando la “declaratio” di papa Benedetto, conclude:
“(Benedetto XVI) dichiara di rinunciare al ‘ministerium’. Non al Papato, secondo il dettato della norma di Bonifacio VIII; non al ‘munus’ secondo il dettato del can. 332 § 2, ma al ‘ministerium’, o, come specificherà nella sua ultima udienza, all’‘esercizio attivo del ministero’…”.
Poi Violi prosegue:
“Il servizio alla chiesa continua con lo stesso amore e la stessa dedizione anche al di fuori dell’esercizio del potere. Oggetto della rinuncia irrevocabile infatti è l’ ‘executio muneris’ mediante l’azione e la parola (agendo et loquendo) non il ‘munus’ affidatogli una volta per sempre”.
Le conseguenze di un fatto simile però sarebbero dirompenti.
Un altro canonista, Valerio Gigliotti ha scritto che la situazione di Benedetto apre una nuova fase, che definisce “mistico-pastorale”, una “nuova configurazione dell’istituto” del Papato che “è attualmente al vaglio della riflessione canonistica”. Anche questo è dirompente.
LA BOMBA DI DON GEORG
Ieri poi, mons. Gaenswein, alla presentazione di un libro su Benedetto XVI, ha spiegato che il suo pontificato va letto a partire dalla sua battaglia contro “la dittatura del relativismo”.
Poi ha testualmente dichiarato:
“Dall’elezione del suo successore, Papa Francesco – il 13 marzo 2013 – non ci sono dunque due Papi, ma di fatto un ministero allargato con un membro attivo e uno contemplativo. Per questo, Benedetto non ha rinunciato né al suo nome né alla talare bianca. Per questo, l’appellativo corretto con il quale bisogna rivolgersi a lui è ancora ‘Santità’. Inoltre, egli non si è ritirato in un monastero isolato, ma all’interno del Vaticano, come se avesse fatto solo un passo di lato per fare spazio al suo Successore e a una nuova tappa della storia del Papato che egli, con quel passo, ha arricchito con la centralità della preghiera e della compassione posta nei Giardini vaticani”.
Si tratta di dichiarazioni esplosive, il cui significato è tutto da capire. Che vuol dire infatti che dal 13 marzo 2013 c’è “un ministero (petrino) allargato con un membro attivo e uno contemplativo”?
E dire che Benedetto ha fatto “solo” (sottolineo quel “solo”) un “passo di lato per fare spazio al Successore”? Addirittura parla di “una nuova tappa nella storia del Papato”.
E tutto questo – dice Gaenswein – fa capire perché Benedetto “non ha rinunciato né al suo nome né alla talare bianca” e perché “l’appellativo corretto con il quale bisogna rivolgersi a lui è ancora ‘Santità’”.
Una cosa è certa: è una situazione anomala e misteriosa. E c’è qualcosa di importante che non viene detto.
Antonio Socci
Da “Libero”, 22 maggio 2016
Sito: “Lo Straniero”
Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”
Twitter: @Antonio Socci1