Raccontare di un miracolo è un’operazione altamente imbarazzante. Non si sa da che parte girarsi tanto è abbondante la Grazia di Dio che si percepisce scorrere e sfuggire dalle mani, soprattutto quella che raggiunge i rivoli più nascosti dell’anima. Allo stesso tempo, raccontare di un miracolo è semplicissimo: è la cronaca di un fatto preciso e realmente accaduto. Partiamo da qui.
«ALBERTO MORIRÀ»
Alberto Del Grossi è un ingegnere sulla cinquantina, vive a Lissone con la moglie Chiara e i tre figli adolescenti Tommaso, Matteo e Giacomo. Il 13 marzo del 2020, con la prima feroce ondata di pandemia da Covid-19, Alberto risulta positivo al tampone e viene immediatamente condotto al pronto soccorso. Prima l’isolamento, poi il ricovero e, da qui, un crescendo inesorabile e catastrofico della malattia.
Per farla breve: dopo un periodo di Cpap (il cosiddetto “casco” per la respirazione), Alberto viene tradotto in terapia intensiva, intubato, completamente sedato, trattato con la Ecmo, ovvero la circolazione extracorporea. Inoltre, su di lui si tenta ogni tipo di cura farmacologica, anche le cure sperimentali. Nulla però sembra avere effetto positivo, al contrario, nei tre mesi di ricovero in diverse strutture ospedaliere, alla moglie Chiara, per ben tre volte, viene data notizia che «Alberto sta morendo».
Ciò che qui si tenta di riassumere in poche righe, in verità, è un lungo calvario che non risparmia ad Alberto i peggiori scenari della malattia tra cui: una trombosi venosa profonda alle gambe che genera un’embolia polmonare massiva, uno shock setticemico, come complicanza della sepsi e una gravissima emorragia polmonare. Insomma ogni volta che il quadro clinico mostra un lievissimo miglioramento, subentra una complicanza talmente grave che fa perdere, dal punto di vista clinico, ogni speranza. Sicché, nonostante le cure a tratti eroiche di medici e infermieri – basti pensare alla dottoressa Michela, una sorta di panzer che fa il primo giorno di pausa dopo un mese e mezzo dal ricovero di Alberto – arriva il punto in cui, a meno di un miracolo, il viaggio sulla terra di Alberto sembra davvero terminato.
A meno di un miracolo, appunto. La verità è che, se oggi possiamo raccontare questa storia, è perché Alberto Del Grossi non solo è vivo, ma la sua storia l’ha scritta in prima persona, in un libro di freschissima pubblicazione: “Eccomi! Storia di una preghiera virale”, edizioni Ares.
Dunque, cosa è accaduto che ha riportato Alberto dalla morte sicura alla vita piena?
Il percorso medico, come detto, è descritto con dovizia di particolari nel libro in cui Alberto stesso riporta tutte le tappe della sua malattia dal punto di vista del paziente. Un particolare questo, non indifferente, perché permette ai lettori, medici compresi, di conoscere alcuni aspetti di questa malattia che vengono per lo più taciuti: colpisce molto sentir dire da Alberto, il quale ha subito trattamenti medici davvero invasivi e invalidanti, che l’aspetto più terribile da sopportare sia stato per lui il completo isolamento, la solitudine e la mancanza di un contatto con la famiglia. Detto questo, se si vuole rispondere alla domanda: cosa o chi ha “riportato” Alberto in vita, siamo costretti ad oltrepassare il campo medico-scientifico.
LA PREGHIERA INCESSANTE
«Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto». (Lc 11, 9-10)
Non si può non pensare a questo passo del Vangelo di Luca nel mentre si ascolta la seconda parte della storia di Alberto. Una “seconda parte”, che ha inizio pur sempre il 13 marzo del 2020, giorno in cui, saputa la positività del marito al Covid-19, la moglie Chiara, medico, inizia a scrivere su un gruppo WhatsApp, che condivide con alcuni amici, le condizioni di salute di Alberto accompagnate da una richiesta di preghiere, che giorno dopo giorno si fa sempre più accorata e insistente.
Questo primo embrione di preghiera, in pochissimo tempo, diventa un inspiegabile fenomeno virale che si rivela assai più pericoloso del Covid-19: un’arma potentissima che darà, in primis, a Chiara una forza e una pace inspiegabili, ma che, al di là di ogni spiegazione, si propagherà oltre i confini della terra.
Di condivisione in condivisione, infatti, i messaggi di Chiara coinvolgeranno persone da ogni dove, faranno pregare interi monasteri, raggiungeranno i posti più impensati: emblematico il video-messaggio di una suora africana del Benin che sprona Alberto e tutta la famiglia a non mollare: «Coraggio, coraggio e Fede! Il miracolo avverrà con la grazia di Dio!». Ma soprattutto, questo vero e proprio popolo orante arriverà a far pregare persone che nemmeno credono in Dio, come un amico di Alberto che gli confida in un messaggio: «Io non credo in Dio, ma questa volta sento di dover pregare per te». E così, molti altri.
IL MIRACOLO.
Dal punto di vista clinico non si comprende cosa effettivamente sia stato a far riprendere Alberto, anche perché, spiega Chiara, che è medico: «Nelle sue condizioni, una ripresa così netta e repentina non era possibile semplicemente come buona risposta ad una terapia».
Eppure, tutto è iniziato il giorno di Pasqua, giorno in cui, dopo l’ennesima ricaduta gravissima, Alberto inizia la sua risalita che lo porterà alla guarigione completa. «Ricordo che quel giorno – racconta Chiara – avevo chiesto al medico di turno di passare nella stanza di Alberto e di fargli ascoltare il Regina Coeli: ero certa che, seppur in coma farmacologico, Alberto in qualche modo potesse sentire». Ebbene, di lì a poco Alberto comincia a dare i primi segnali di ripresa.
Fanno sorridere due cose, che sembrano proprio lasciare il marchio del Cielo in tutta questa vicenda.
Da un lato quell’«Eccomi!» con cui Chiara inizia ogni suo messaggio quotidiano su WhatsApp rivolto al popolo orante. Ebbene, nonostante lei spieghi che l’espressione si riferisse semplicemente all’attesa che si creava ogni giorno attorno allo stato di salute di Alberto, in verità quell’«Eccomi!» descrive perfettamente la posizione che Alberto, Chiara e la loro famiglia hanno vissuto: una sincera apertura alla Volontà di Dio, che percepivano farsi Presente in modo misterioso proprio in questa dolorosa realtà. Quasi fosse, quell’«Eccomi!», una firma mariana, un raggio di Maria sul popolo orante che, giorno e note, incessantemente, alzava il suo grido al Cielo.
Dall’altra c’è un fatto. Chiara non ha mai avuto dubbi o tentennamenti su ciò che occorresse chiedere a Dio: il miracolo della completa guarigione di Alberto. Questa certezza, fermezza e perseveranza è stata respirata ed è come passata per osmosi in tutto il popolo orante.
Un amico di famiglia, per esempio, scrive nel libro che nemmeno per suo padre aveva chiesto, come per Alberto, il miracolo della guarigione con la stessa chiarezza e lucidità. Lo stesso amico prete, don Giacomo, che nei mesi di malattia ha offerto quotidianamente l’Eucaristia per Alberto, arriva a dire con le parole del Salmo 119: «Oh Dio, non puoi non farci questa grazia!».
Ebbene, entrando in questa storia si riesce a vedere però che questa richiesta, che parte dalla famiglia e si propaga in tutto il popolo di Dio, non è una richiesta “capricciosa”, “sconsolata” o “disperata”, ma è una richiesta illuminata dallo Spirito di Dio, quasi come fosse guidata dal Cielo per preparare la strada al compiersi del miracolo della sua Volontà.
DON GIUSSANI: UN’AMICIZIA IN CARNE E OSSA
C’è un’ultima cosa che non si può tralasciare in tutta questa vicenda che si è consumata tra Cielo e terra: si tratta di un’amicizia molto speciale. Chiara e Alberto raccontano che da giovani universitari conobbero don Luigi Giussani, il quale, incontrandoli, raccomandò loro di coltivare con cura l’amicizia che era sbocciata tra loro.
Da quel momento non solo crebbe l’amicizia tra i due, che si sposarono e diedero vita alla loro famiglia, ma crebbe in loro anche l’affezione al movimento di Comunione e Liberazione di cui don Giussani fu appunto il fondatore. Fu proprio in virtù di questa amicizia che Chiara chiese da subito a tutti che si pregasse il loro amico don Gius di intercedere dal Cielo per il miracolo della guarigione.
E ancora, in uno dei momenti più difficili della malattia di Alberto, Chiara chiede che gli fosse appoggiato il suo santino sul cuscino: «Avevo bisogno di sapere che il don Gius fosse lì anche “fisicamente” a vegliare su mio marito e ho sempre saputo che lui avrebbe risposto a questo mio desiderio del cuore».
Dal giorno che fu posizionato sul cuscino, nonostante i vari trasferimenti di stanze e di strutture ospedaliere, il santino dell’amico non ha mai lasciato Alberto e oggi è tornato a casa con lui, più vivo che mai.