May Chidiac, giornalista conduttrice di LBC, Lebanese Broadcasting Corporation, il principale network televisivo libanese. Per anni ha animato il più importante talk show politico e condotto il telegiornale. Senza peli sulla lingua, puntando il dito contro l’occupazione siriana del Libano prima e contro le responsabilità siriane nell’omicidio di Rafic Hariri – il premier che voleva restituire al Libano la piena indipendenza.
Finchè un giorno qualcuno ha messo un chilo e mezzo di esplosivo dentro alla sua auto e l’ha collegato al sistema di accensione, mentre lei era in chiesa a pregare. Inginocchiata per l’ultima volta nella sua vita. Quand’è tornata al veicolo e ha cercato di ripartire l’esplosione le ha strappato un braccio e una gamba, le ha incendiato i vestiti e i capelli, le ha causato fratture in tutto il corpo.
Era il 25 settembre 2005. Ha lottato tre giorni fra la vita e la morte, mentre i medici amputavano, estraevano schegge, riducevano le fratture, cucivano le ferite, prelevavano tessuto cutaneo da una parte e lo trapiantavano dall’altra per cancellare le ustioni. È sopravvissuta. Il 1° dicembre è partita per la Francia, destinazione un centro specializzato per le protesi. Il 25 luglio 2006, dieci mesi esatti dopo l’attentato, è tornata in tivù con una nuova trasmissione intitolata “Con audacia”.
Quel giorno è cominciata la sua seconda vita pubblica, non meno turbolenta della prima. Premi giornalistici internazionali a ripetizione: il Premio della francofonia per la libertà di espressione, il Premio mondiale della libertà di stampa Guillermo Cano assegnato dall’Unesco, il Premio per il coraggio nel giornalismo della Fondazione internazionale dei media delle donne, l’inserimento del suo nome nell’elenco degli Eroi della libertà di stampa mondiale dell’International Press Institute) e la legione d’onore della Repubblica francese.
May Chidiac è stata l’unica donna finita nel mirino. E che donna. Bionda, formosa, passionale, elegantissima, un’icona della bellezza mediorientale più sofisticata. Da vent’anni dominava incontrastata gli schermi televisivi e annichiliva gli share dei concorrenti. Grazie a una miscela di competenza professionale e fascino, senso della notizia ed emotività. (…) l’attentato contro May Chidiac lasciò sbigottita l’intera nazione perché era la prima volta che veniva intenzionalmente presa a bersaglio una singola donna.
«Volevano dimostrare che nessuno è intoccabile, soprattutto fra coloro che esercitano un’influenza sull’opinione pubblica», spiegava lei al tavolo dell’immensa suite all’Hotel Exedra di Roma dove giornalisti e troupe televisive facevano la coda per intervistarla durante il suo soggiorno in Italia per presentare il suo libro: “Il cielo dovrà attendermi” (Tea 2008, pp. 213).
Bastò stare un’ora con lei lì a Roma per capire i significati reconditi, molto orientali, di quell’attentato. Bastò soffermarsi sul morbido rosa del suo completo pantaloni e giubbino, replicato dal rossetto e dall’ombretto misto a un azzurro lieve, sulla sua grazia intatta nonostante l’andatura claudicante, sul capolavoro della mano sinistra artificiale, perfettamente identica alla sopravvissuta destra con la sua seduttività affusolata, per intuirlo. May Chidiac era il fascino muliebre al servizio del patriottismo, il potere della bellezza contrapposto al potere di chi non vuole l’indipendenza del Libano. Per questa profonda ragione era finita nella lista dei nemici da distruggere insieme a ministri, deputati e generali: per la valenza politica della sua bellezza.
Di conseguenza, quello contro May Chidiac è stato anche l’unico attentato libanese di cui non si è mai potuto fare il bilancio definitivo. Certo, la vittima è miracolosamente sopravvissuta, e questo ha rappresentato un fallimento per gli attentatori. Però è rimasta mutilata, e questo costituisce per loro un successo. Ma la battaglia più importante, quella per la riaffermazione o la cancellazione della bellezza di May, è ancora in corso e infuria terribile.
La giornalista ora deve combattere non solo contro i terroristi («continuo a ricevere minacce di morte», diceva, ed è ancora così), ma anche contro i medici che non la capiscono e contro se stessa, contro i momenti di scoraggiamento («non essere più indipendente mi pesa tremendamente, a volte mi domando se la mia vita vale la pena di essere vissuta, e vorrei mollare, smettere di lottare»).
May è sopravvissuta e ha ritrovato la parziale funzionalità degli arti grazie alle cure intensive dell’Hotel-Dieu-de-France in Libano e del centro di riabilitazione di Valenton in Francia. Ma il suo rapporto con medici, esperti di riabilitazione e maghi delle protesi sono stati tutto tranne che idilliaci. «Per salvarmi mi hanno imbruttita. Non hanno pensato al dopo. Della bella pelle che avevo prima resta poco: quella che non è stata rovinata dall’esplosione l’hanno sciupata loro, prelevandola qua e là per rimediare alle ustioni», dice abbassando un po’ la scollatura, che lascia intravedere cicatrici sui seni.
«Per aggiustare le mie tre vertebre spezzate hanno prelevato il tessuto osseo dalle costole, e per farlo mi hanno aperto come un’anguria. Visto che ero a pezzi, devono aver pensato che una ferita in più o in meno non faceva differenza. Non glielo perdonerò mai!», s’era infervorata, quasi stesse parlando degli attentatori. E non era andata meglio coi luminari francesi. Loro mostravano tutta la loro abilità con protesi estremamente funzionali, lei criticava ferocemente la povertà estetica delle soluzioni che le mettevano a disposizione. Alla fine ha ottenuto che la protesi della gamba le permettesse di portare scarpe con tacchi di 8 centimetri. «Quando non si è contenti di un’officina, si porta la propria vettura da un’altra parte!», era sbottato a un certo punto un medico. «Era la prova che avevo ragione io: mi trattavano come una macchina e non come una persona!». «Se la mia mano deve essere ridotta a una pinza che afferra gli oggetti, non la voglio. Ho una mano meccanica, ma la tengo chiusa nell’armadio e non la uso quasi mai. Metto questa mano artificiale. Guardi com’è bella, con questi anelli e le unghie smaltate e ben curate. Guardi le vene, guardi il colorito assolutamente identico alla destra. Io amo tutto ciò che è bello. Voglio conservare la mia immagine e il rispetto del mio corpo e della mia persona. Non voglio cambiare. Per i francesi questo è secondario? Sono affari loro. Io sono una donna elegante e voglio restarlo». (…)
Se gli attentatori, fallito l’obiettivo di eliminare fisicamente la giornalista che li incomodava, si sono per un momento compiaciuti di avere però sfigurato la sua bellezza e con ciò di avere stroncato la sua personalità, presto si sono dovuti ricredere. Hanno trovato pane per i loro denti.
Con tutto quello che è successo al suo corpo, May vuole restare bella ed elegante. Non è facile. Trentatrè operazioni subìte, di cui ventinove in anestesia totale, migliaia di pastiglie inghiottite, chiodi chirurgici e placche metalliche infisse dappertutto. «Quando l’autista prende un dosso a velocità troppo elevata e mi fa sobbalzare, gli dico: “Piano, sono una donna tenuta insieme con le viti, alla prossima buca dovrai raccogliere i pezzi e rimetterli insieme!”. Mi fa sempre male la schiena, alla fine della giornata la gamba destra è sempre gonfia, e continuo ad avere la sindrome dell’arto fantasma: sento dolore o prurito alla gamba sinistra, quella che non c’è più. Certi giorni mi ribello, odio il mio corpo. Ma voglio ritrovarmi, e sono convinta che poco per volta mi ritroverò, le mie protesi mi diventeranno familiari, troverò il ritmo adatto al mio nuovo corpo. Ma sono molto esigente, pretendo molto da lui. E forse è per questo che lui ce l’ha con me».
A una donna così non parlate di psicologi: «Ci manca solo che a tutte le dipendenze che ora mi tocca subire io debba aggiungere anche quella da uno psicologo! Quando ho bisogno di aiuto morale mi rivolgo a Dio, alla Vergine e a san Charbel. Ho sempre contato solo su me stessa e su di loro. E se l’aiuto non arriva, vuol dire che non è il momento giusto».
May crede fermamente di essere sopravvissuta a motivo di un miracolo, e questa convinzione la accompagna fino ad oggi. Ma questo non toglie che il suo rapporto con Dio, così come lo raccontava a Roma, faccia venire in mente Giobbe, con le sue proteste seguite dall’accettazione della volontà divina. «I terroristi hanno scelto il giorno sbagliato. Avevo appena visitato il santuario di san Charbel, avevo pianto pregando e sentivo Dio molto vicino. Quando sono salita in auto, mi sono girata per deporre sul sedile posteriore l’acqua benedetta, le icone e l’olio santo che mi avevano dato al santuario. Quel movimento mi ha salvato la vita».
Ma non è fatto solo di gratitudine il suo dialogo con Dio. Anzi. «È un dilemma. Ringrazio sempre Dio perché il mio volto è rimasto intatto, ma a volte mi arrabbio con Lui e gli dico: “Avresti potuto impedire all’assassino di premere il bottone, avresti potuto provocare una panne, se davvero volevi salvarmi. Perché mi hai lasciato viva per portare questa croce? È troppo pesante per me…”», sussurra con la voce incrinata. «Ma poi penso che è intervenuto», riprende trattenendo le lacrime. «Ha salvato il mio viso, mi ha dato la forza per continuare la lotta, riprendere il mio lavoro in tivù, provare al mondo intero che gli assassini non possono vincere».
Rodolfo Casadei
La storia sopra raccontata è parte del libro “Tribolati ma non schiacciati – storie di persecuzione, fede e speranza”, edito da Lindau.
Fonte: Zenit