«Così la cultura protestante e americana ci colonizzerà» – di Rino Cammilleri

Poco tempo fa il nostro ministro dell’istruzione, Stefania Giannini, ha firmato un accordo col collega germanico, Johanna Wanka, al fine di cooperare nel settore della formazione professionale. Il ministro italiano ha spiegato che si tratta di un passo in direzione del modello economico tedesco.

In che cosa consiste questo modello che l’Italia farebbe bene a imitare? Alle nostre domande risponde Ettore Gotti Tedeschi, economista, banchiere e nostro collaboratore.

«Temo si tratti della conversione dei modelli educativi e professionali caratteristici della cultura cattolica in quelli influenzati dalla cultura protestante. Quelli cattolici sono fondati, e ancora si fondano, sul “capire il perché” delle cose. Quelli di cultura protestante, americana soprattutto, sul “capire come” realizzare in tempi brevi, competitivi, più (secondo loro) efficienti.

I primi hanno alle spalle l’attitudine secolare a discernere prima di agire. I secondi sono, per lo stesso motivo, più pragmatici. Tedeschi e americani, in modo diverso per via della loro storia, hanno in comune questa influenza culturale. Con una differenza significativa. L’americano vive la sua libertà individuale molto di più del tedesco, il quale mostra maggior propensione all’obbedienza disciplinata al capo riconosciuto…

L’Italia farebbe bene ad imitarne il modello per risolvere i suoi problemi? Ho dei dubbi. Ciò che rende competitivo un sistema economico non è solo il modello educativo, ma anche il contesto in cui tale modello viene applicato. Il nostro si fonda sul genio imprenditoriale nella piccola e media impresa, su fantasia e creatività.

Si dovrebbe riflettere con prudenza su un modello diverso, concepito per grandi entità, dimensioni e struttura di impresa».

Però, spiegando ai giornalisti, la Giannini ha detto che «dobbiamo tendere sempre più verso un modello americano, in cui la flessibilità, che è sinonimo di precariato, è la base di tutto il sistema economico».  Ma allora, modello tedesco o americano? 

«É piuttosto un modello conseguente alla cultura protestante, diventato fortemente competitivo negli Usa per vie delle innumerevoli «chiese» in competizione per accaparrarsi fedeli e offerte.

Il modello americano, imposto progressivamente in tutto il mondo occidentale soprattutto dagli Anni ’60, si fonda sul know how (lett. sapere come, ndr), diverso, come già detto, da quello (soprattutto italiano) del know why (lett. sapere perché, ndr). In quegli anni, preoccupato da tale “invasione culturale”, J. J. Servan Schreiber (fondatore e primo direttore dell’Express), scrisse un libro fondamentale (che influenzò De Gaulle): Le défi américain («La sfida americana»).

Un modello fondato sul “capire come” rende più facili l’accesso al lavoro, l’apprendimento, la produttività immediata dell’avventizio. Ma ne limita la capacita di domandarsi i “perché” .

Il modello know how dà buoni risultati in fasi economiche di crescita e sviluppo, ma molto meno in fasi di crisi e di grandi cambiamenti, nei quali capire perché qualcosa deve cambiare è fondamentale e conferisce un vantaggio su chi è, invece, abituato ai modelli concepiti per “casi pratici” e appresi spesso in modo stereotipo.

Il modello know how va, sì, bene se si ha più bisogno di tecnici che di umanisti. Ma condiziona lo sviluppo dei talenti e del genio umano. De Gaulle reagì rafforzando gli organismi di studio e consulenza strategici, nei quali si badasse a pensare prima di fare (fare, e magari sbagliare per poi correggere, ma spesso a costi altissimi o troppo tardi).

Gli attuali accordi mi sembrano “suggeriti” da parte tedesca. Ascoltando la Prima Ministra teutonica quando si riferisce agli italiani, si ha l’impressione che pensi a persone che tendono a “non raccontarla mai giusta” … Invece, i casi Wolkswagen o Deutsche Bank, dicono cosa diversa».

A noi cattolici interessa anche un altro aspetto del radioso futuro prospettatoci dall’asse italo-tedesco: la famiglia. Dice la Giannini che «non ci sarà più spazio per la famiglia come la intendiamo oggi». Infatti, il precariato, pardon, «la flessibilità induce le persone a spostarsi individualmente, il modello di famiglia a cui siamo abituati, che rappresenta stabilità e certezze, non esisterà più». Ma la famiglia, è anche il luogo dei figli. Meno famiglie, meno figli. Perciò, chi lavora?

 «La distruzione della famiglia tradizionale è coerente con il modello educativo auspicato. L’educazione soggettiva e centrata su valori (il “sapere perché”) che solo la famiglia può dare viene considerata come fonte di diseguaglianze, di conflitti, di squilibri. Solo che così si realizza l’uomo-automa».

Ora, le due ministre sanno bene che i loro Paesi hanno il record mondiale della denatalità. Ma la Wanka ha la ricetta giusta: i migranti. Insomma, la vecchia storia che gli africani e i mediorientali ci pagheranno le pensioni è sempre viva e vegeta, anzi. Tuttavia, il piano funzionerà se i nuovi arrivati si faranno disciplinatamente istruire sui modi di lavoro&consumo euro-americani e, magari, spenderanno qui anziché mandare i guadagni in altri Continenti. 

«Sul progetto “immigrazione forzata e politica” che stiamo vivendo ci sono troppe cose da valutare e spiegare, impossibile farlo in poche parole. Dico solo che una politica dell’immigrazione come quella che ci tocca subire funziona soltanto se l’economia lo permette.

Se gli immigrati devono riempire i vuoti, si facciano bene i conti: in Italia avremmo bisogno di dieci milioni di immigrati domani stesso, e probabilmente una cinquantina in Europa, ma la soluzione dei problemi italiani ed europei non passa da questa strada.

Ho il sospetto che in ballo ci sia l’ostinazione nel voler cancellare le nostre radici cristiano-cattoliche».

Fonte: La NBQ