Sono profondamente contraria al riposo, anche se mi pare evidente che questo sia uno dei tratti che mi rendono più invisa a mio marito (un uomo un po’ troppo ragionevole). La mia teoria è che è bene non fermarsi, chi si ferma è perduto. Perché se stai correndo a perdifiato, agogni di camminare. Ma se stai camminando ti vorresti fermare, mentre quando sei in piedi dopo un po’ vorresti sederti. Se sei seduta da molte ore, infine, a un certo punto agogni di sdraiarti.
Il riposo è una china senza fine, porta alla corruzione dei costumi. Se mi riposo troppo tendo immediatamente a diventare una debosciata. Comincio a guardare i piatti nella speranza che decidano di andare da soli nel lavello della cucina, osservo languidamente le ragnatele notando come diano un certo tono elegantemente negligé alla mia prestigiosa dimora.
Invece se non dormi il sonno passa, la fame passa, e peraltro cosa c’è di più corroborante di una bella corsa su una strada ghiacciata quando fa meno due?
Fonte: il blog di Costanza Miriano
Ovviamente sto (un po’) scherzando. So bene che il riposo è stato istituito da Dio stesso, e che santificare le feste è il terzo comandamento. So che è importante, utile, necessario che la vita abbia dei ritmi quotidiani, settimanali e anche annuali in cui si cambia ritmo, si rallenta e si dà spazio a cose che di solito non lo hanno.
Il problema è che dopo il riposo ricominciare è faticosissimo. Riprendere in mano la vanga, riscendere in trincea, rimettersi l’uniforme, ritrovare il proprio posto di combattimento, riaprire la cartina e vedere quali mosse sono da fare per guadagnare qualche altra posizione in un altro anno di lavoro, fuori o dentro casa che sia, fuori o dentro di noi. (Quanto al lavoro dentro di noi, magari la vacanza è stata anche un tempo opportuno per intensificarlo, e questo va bene).
Ora parlo proprio del lavoro quotidiano, dell’agenda, degli impegni, dell’organizzazione (un appello al maestro di tennis perché mi trovi uno spazietto per il grande il venerdì, mi semplificherebbe molto le cose). Confesso di avere avuto, qualche giorno fa, un momento di scoramento al pensiero di riprendere il ritmo quotidiano.
Poi, lamentandomi direttamente con il Principale, mi è parso improvvisamente chiaro che è proprio l’obbedienza al nostro posto di combattimento – anche quando la trincea è ghiacciata e il cibo scarseggia (non è sempre così, a volte c’è il sole e si mangia benissimo!) – quello che ci salva.
Il fatto è che quanto noi desideriamo non sempre è quello che davvero va bene per noi, che ci custodisce e ci fa fiorire. Dobbiamo stare attenti a quello che desideriamo, perché non sempre va bene per noi.
Questo dipende dal fatto che il congegno interno che ci fa funzionare è un po’ scassatello. Non gira bene. Si inceppa, arranca, fa fatica. Ogni tanto fa qualche battuta a vuoto, a volte poi si inceppa del tutto.
C’è un solo modo per farlo ripartire, ed è quello di abbracciare la croce, che poi detto più semplicemente è quello che ci scomoda, che ci sta antipatico, che ci dà a volte solo fastidio, a volte proprio ci fa soffrire.
Lì per lì il meccanismo cigola, emette suoni preoccupanti, sembra che schiatti sotto il peso. Poi, miracolosamente, comincia a ingranare. Comincia a funzionare sempre meglio, come una barchetta che si abbandona alla corrente e prende il via.
Quindi, buon nuovo anno di trincea a tutti.
P.s. Okay, va bene ritornare ai propri posti di combattimento. Va bene anche un po’ di fresco, per quanto repentino (si chiamano stagioni). Ma, dico, quello della palestra davanti a casa mia doveva proprio sentire l’esigenza impellente di metter già fuori le lucine di Natale? Il due settembre? Lo fa apposta? Dieci giorni fa la sabbia ci scottava i piedi!