In questa settimana abbiamo partecipato alla solennità di Ognissanti e alla commemorazione dei defunti, due ricorrenze che ci portano a meditare sulla vita ultraterrena. L’anno scorso abbiamo riflettuto su queste due verità di fede (qui) meditando sui Novissimi, che, secondo la definizione che ne dà il Catechismo di S. Pio X, sono Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso che sono spiegati così: “Novissimi si dicono le cose ultime dell’uomo, perché la Morte è l’ultima cosa che ci accade in questo mondo; il Giudizio di Dio è l’ultimo fra i giudizi che dobbiamo sostenere; l’Inferno è l’estremo male che avranno i cattivi; il Paradiso il sommo bene che avranno i buoni.” (qui)
Abbiamo anche rilevato come oggi si sia sempre più diffusa l’errata convinzione che dopo la morte intervenga una benevola misericordia di Dio che abbuona i peccati commessi e assolve tutti senza distinzione, parendo che l’Inferno sia incompatibile con la bontà di Nostro Signore.
Vediamo quindi di fare chiarezza appoggiandoci a quelli che sono i tre pilastri della nostra fede: le Sacre Scritture, il Magistero della Chiesa cattolica e la Tradizione apostolica. Alla Chiesa è stata affidata da Gesù la trasmissione e l’interpretazione della Rivelazione ed essa “attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Sacra Scrittura”, come afferma la Costituzione dogmatica “Dei Verbum” (qui), di modo che resta sempre attuale l’affermazione Extra Ecclesiam nulla salus, ovvero al di fuori della Chiesa non v’è salvezza, espressione coniata per la prima volta da S. Cipriano in occasione del Concilio di Cartagine nel 256 e ribadita dalla Costituzione dogmatica “Lumen Gentium” durante il Concilio Vaticano II (qui).
In essa si dichiara: “Non si salva, però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando nella carità, rimane sì in seno alla Chiesa col «corpo», ma non col «cuore».” E aggiunge: “Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati.”
Perciò, se vogliamo salvare la nostra anima, dobbiamo fidarci di quanto da duemila anni la Chiesa ci insegna attraverso il suo Magistero e, prioritariamente, dobbiamo sfatare la credenza che tutti i morti vadano sicuramente in Paradiso, come un automatismo. Se ciò fosse vero la Chiesa non pregherebbe per i defunti in ogni messa né tantomeno avrebbe inserito nella liturgia una specifica giornata di preghiera per coloro che ci hanno preceduto nella morte, concedendo pure un’indulgenza plenaria da applicare, se lo vogliamo, alle anime che stanno purificandosi in Purgatorio.
Nel Vangelo di Matteo troviamo quanto chiarito da Gesù: “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono”. Così spiega questo passo don Dolindo Ruotolo, mistico del secolo scorso del quale è stata avviata la causa di beatificazione: “Giovanni attirò le folle e le indirizzò verso il compimento delle antiche promesse. Lo fece con tanto ardore che, dopo la sua predicazione, il regno dei cieli è diventato non un termine di aspirazione ma di conquista reale, e il desiderio della salvezza quasi una gara e una ressa per conseguirla.”
Certamente ai nostri giorni questa consapevolezza del destino ultraterreno è venuta a scemare a tal punto dal preferire credere che dopo la morte vi sia il nulla. Al contrario, la misericordia del Signore sta nel voler salvare tutti, perché per tutti ha offerto la propria vita. Tra i tesori che Egli ha messo a nostra disposizione per tale fine vi sono, oltre alle Scritture, le testimonianze e gli scritti dei Santi, oggi molto trascurati perché, erroneamente, ritenuti superati, dimenticando che “Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre”, come afferma S. Paolo nella lettera agli Ebrei (Eb 13, 7-9) e, per conseguenza, eterna è anche la sua Parola.
Noi moderni invece, tralasciando di approfondire la nostra fede ci siamo convinti che sia sufficiente compiere le opere buone per aver salvata l’anima, dimenticando che, come afferma nella sua lettera S. Giacomo apostolo, esse sono il frutto della fede e non il fine. Cosicché inconsapevolmente abbiamo sostituito l’essere profondamente credenti col comportarci come tali. Cioè molti sono convinti che l’agire bene secondo l’etica del mondo sia la condizione sufficiente per la nostra salvezza.
Il fondamento per incamminarsi verso il Paradiso lo indica Gesù quando, rispondendo ad un dottore della legge che lo aveva interrogato su quale fosse il più grande comandamento, rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti.” (Mt 22, 35-39) Questo amore che unisce gli uomini con Dio e tra loro, attraverso Dio, è la carità, una delle tre virtù teologali insieme alla Fede e alla Speranza.
S. Paolo, nella prima lettera ai Corinti (1Corinti, 13) ne fa l’elogio, anteponendola a tutti gli altri carismi che lo Spirito Santo dona agli uomini e così spiega don Dolindo Ruotolo nel suo commento al testo: “L’effusione dello Spirito Santo con doni straordinari è sempre unita alla carità poiché l’anima, amando Dio sopra tutte le cose, è investita della sua luce, approfondisce le eterne verità, ed è tutta piena di fede capace di operare anche i miracoli. La carità porta poi con sé tutte le virtù, e le virtù sono quelle che profumano la Chiesa e fanno bene alle anime”
E per quanto riguarda il prossimo, aggiunge: “Se per assurdo l’uomo potesse avere il dono di dare tutto ai poveri, e di farsi bruciare vivo per soccorrere gli altri, e facesse questo senza la carità, (cioè senza) quel potente amore soprannaturale verso Dio e il prossimo che potrebbe vivificare il suo eroismo, non gli gioverebbe a nulla per l’eterna salvezza.” E infatti sin dal Vecchio Testamento si legge che Dio non gradisce le offerte, come quelle di Caino, fattegli senza amore per Lui.
Don Dolindo specifica che è necessario distinguere la carità dal buon cuore, ovvero quella sensibilità naturale che può essere incostante e addirittura altalenare tra una profonda ripugnanza a beneficare il prossimo e un successivo commuoversi per un nuovo motivo. Ciò a motivo che la carità è un sentimento soprannaturale ispirato dall’Amore di Dio e inseparabile da questo amore perché radicato in Lui.
Se ci è possibile amare il nostro Creatore sopra ogni cosa con tutto il cuore, accogliendo la sua Parola e ubbidendo ai suoi comandamenti, molto più difficile ci risulta mettere in pratica un identico amore per il nostro prossimo quando esso risulta molesto, ostile, o ci ha gravemente danneggiato. Eppure se crediamo in Dio dobbiamo credere anche in quello che ci ha insegnato, come il perdonare, perché tale monito viene riportato da tutt’e tre i Vangeli sinottici (Mt 18, 21-22; Mc 11,25; Lc 6,37) ed è indispensabile per guadagnare la vita eterna.
Per riuscire a superare questa repulsione naturale di fronte a coloro che ci procurano sofferenza viene in nostro soccorso S. Caterina da Siena, dottore della Chiesa, col suo libro “Dialogo della Divina Provvidenza”, in cui riferisce le parole del Signore a proposito dell’amare Lui e il prossimo. Le spiega Dio che noi dobbiamo amarlo con lo stesso amore con cui Lui ama noi, ma che non possiamo mai eguagliarlo perché Lui ci ha amati senza essere amato. E le dichiara: “Ogni amore che mi portiate è amore di debito e non di grazia; mi amate perché dovete amarmi, mentre io vi amo per grazia e non perché lo debba fare: così non potrete mai rendermi questo genere di amore che pur vi chiedo. Perciò vi ho dato il mezzo del vostro prossimo, affinché facciate a lui quello che non potete fare a me: amarlo senza altro fine che la carità, senza aspettarvi alcun vantaggio. In tal modo io reputo fatto a me ogni cosa che voi fate al vostro prossimo, con tale amore. […]
E poiché io vi amai senza essere amato da voi, prima che voi foste – fu proprio l’amore che mi mosse a crearvi a mia immagine e somiglianza – voi non potrete mai restituire un amore siffatto; potrete però donarlo alle creature dotate di ragione, amandole anche senza essere amati da loro […] Solo così adempirete il comandamento della legge: amare me sopra ogni cosa e il vostro prossimo come voi stessi.”
Ci invita anche S. Ambrogio nel suo trattato “Caino e Abele” a non pregare solo per se stessi ma in maniera tutta speciale per il popolo, cioè per tutto il corpo, per tutte le membra della madre: sta in questo il segno della carità vicendevole. […] La ricompensa è maggiore perché le preghiere dei singoli messe insieme ottengono a ognuno quanto chiede tutto intero il popolo. (Lib. 1, 9. 34. 38-39; CSEL 32, 369. 371-372)
Dobbiamo prendere atto che tutti gli uomini possiedono un’anima spirituale della stessa sostanza e che essa non può avere la propria origine che in Dio solo, come ci insegna il Catechismo (33), ma anche che ogni uomo, come fu per i nostri progenitori, è soggetto alle tentazioni del Maligno, nelle quali cade quando per i propri peccati gli viene a mancare la Grazia, rischiando così la dannazione eterna.
Perciò di fronte alla malvagità umana noi dobbiamo reagire non con l’umano disprezzo, ma come insegna S. Paolo: “La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, e a questo scopo vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi.” (Ef 6,10-20)
Queste preghiere incessanti vanno indirizzate però a Dio non solo per noi stessi ma anche per liberare i nostri fratelli dalle suggestioni e dal dominio del Male, come testimoniano aver fatto i Santi nelle loro vite e come ci ha chiesto la S. Vergine a Fatima, quando ha detto che molti vanno all’Inferno perché nessuno si sacrifica per loro. Si comprende così pienamente la frase di Gesù nel discorso della Montagna: “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia” (Mt 5,7) infatti la vera misericordia è provare la compassione nella ripugnanza, e tutto va fatto per amore di Dio, avendo presente quanto è costata ogni anima al nostro Salvatore. Anche in questo consistono le virtù eroiche che ci verranno accreditate a nostra salvezza.
S. Paolo, nella lettera agli Efesini ci indica anche i mezzi con cui resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove (ibidem) e S. Pietro ci conferma nella sua lettera: “Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo (Pt 1, 6-7)
Infatti, come leggiamo nel Vangelo di Luca, Gesù ci ha spiegato: “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele.” (Lc 22, 28-30).
“Non possiamo noi esser capaci de i beni del paradiso – afferma S. Alfonso – perché non abbiamo altre idee, che de’ beni di questa terra. Se i cavalli avessero mai il discorso, e sapessero che il padrone sposandosi ha preparato un gran banchetto, s’immaginerebbero che il banchetto non consisterebbe in altro, che in buona paglia, buona avena ed orzo: perché i cavalli non hanno idea d’altri cibi che di questi. Così pensiamo noi de i beni del paradiso.” (S. Alfonso Maria de Liguori, Apparecchio alla morte, Considerazione XXIX)
“Procuriamo al presente di soffrir con pazienza le afflizioni di questa vita, offrendole a Dio in unione delle pene che patì Gesù Cristo per nostro amore; e facciamoci animo colla speranza del paradiso. Finiranno un giorno tutte queste angustie, dolori, persecuzioni, timori; e salvandoci, diventeranno per noi gaudii e contenti nel regno de’ beati. Così ci fa animo il Signore: «Tristitia vestra vertetur in gaudium», Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. (Gv. 16, 20).
Nell’Apocalisse di S. Giovanni descrive la sorte a cui andranno incontro i disobbedienti in contrapposto alla gloria che spetterà a coloro che osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù e riferisce: “Poi udii una voce dal cielo che diceva: Scrivi: Beati d’ora in poi, i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono”. […]
“Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il «Dio-con-loro ». E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”.
Paola de Lillo