Fino a ieri le bambine mai nate, abortite perché femmine, erano solo numeri, caselle vuote nei conteggi dei demografi. Oggi non è più così, il dibattito ha scavalcato i confini accademici. Dopo i libri sono arrivati il giornalismo investigativo, le inchieste sotto copertura, la televisione, il micro-blogging. Il muro dell’indifferenza inizia a franare? Spettacolarizzazione e processi mediatici sono un passaggio obbligato?
India, 6 maggio 2012, va in onda la prima puntata del talk show Satyamev Jayate («La verità prevale»). L’originale è in hindi ma, tradotto nelle varie lingue regionali, è trasmesso in contemporanea da più canali, e nei villaggi in cui la televisione non si è ancora diffusa è possibile seguirlo sui megaschermi. Conduce la star del cinema Aamir Khan, sorriso seducente e sguardo allenato alle telecamere. Nessuno poteva immaginare che proprio lui sarebbe diventato il volto pubblico della battaglia ai “feticidi femminili” nella patria del Nobel Amartya Sen.
In studio parlano donne costrette ad abortire dopo che l’ecografia ha rivelato il sesso fetale “sbagliato” e donne che sono state emarginate per aver resistito. Gli spettatori in studio sobbalzano, si commuovono. Fuori ci sono milioni di indiani sintonizzati. Aamir illustra i dati dell’ultimo censimento, lancia i servizi, intervista. Nel 2005 i giornalisti Meena Sharma e Shripal Shaktawat hanno smascherato decine di medici disposti a infrangere la legge praticando la selezione del sesso. Il conduttore si rivolge al Governo del Rajastan perché acceleri i processi e chiede al pubblico di aderire all’appello mandando un messaggio. Il sito della trasmissione va in tilt per i troppi contatti. La parola chiave “feticidio femminile” è la più digitata su Twitter.
Gli specialisti sostengono che in India i media possono fare la differenza. Dove arriva la tv aumentano le iscrizioni scolastiche e l’autonomia femminile, mentre diminuisce l’accettabilità delle violenze domestiche. Da quando Amartya Sen ha coniato l’espressione missing women, calcolando che in tutto il mondo sono cento milioni, sono passati 22 anni, ma in India mancano ancora 37 milioni di donne. Il Governo ha messo fuori legge la selezione del sesso, ha affisso manifesti con la scritta «le bambine portano la felicità in famiglia», ha varato incentivi economici per le figlie femmine, ha patrocinato la giornata nazionale della bambina. Eppure, per scuotere la Nazione, c’è voluto un attore di Bollywood.
A far scoppiare il caso degli aborti selettivi in Gran Bretagna, invece, è stato uno scoop giornalistico. Già nel 2007 l’università di Oxford aveva documentato la nascita di troppi maschi e poche femmine nella comunità indiana residente oltre Manica, ma una telecamera nascosta è ben più potente di un grafico. Nel febbraio di quest’anno quella del «Telegraph» ha filmato una dottoressa di una clinica di Manchester, mentre accetta di programmare un aborto dopo che la finta paziente le ha spiegato di non volere una femmina: «Non faccio domande, se vuoi un aborto è un aborto».
La stessa scena si ripete, con qualche variante, negli Stati Uniti, dove a muoversi sotto copertura è l’organizzazione Live Action. Tra aprile e giugno vengono pubblicati quattro video, che documentano quanto sia facile sbarazzarsi dei feti di sesso femminile anche al di là dell’Atlantico. Ad Austin come a New York, alle Hawaii come in Arizona, dove pure esiste una legge statale che vieta gli aborti sesso-specifici. Sono filmati che, presumibilmente, potrebbero essere girati anche a Milano o a Parigi, e che ognuno può usare per restarsene chiuso in trincea.
Chi si oppone all’aborto tout court può leggervi la conferma che l’accesso regolato ha fallito, dunque occorre un divieto generalizzato. Chi difende la libertà di scelta può leggere i pericoli e i limiti del diritto all’aborto. Ma tra la rimozione collettiva e il braccio di ferro una terza via ci sarebbe. Richiede di riporre le telecamere nascoste e di accendere pubblicamente i riflettori. Ne saremo capaci?
Anna Meldolesi