Don Gianluca Carrega, responsabile dell’arcidiocesi di Torino per la pastorale delle persone omosessuali, ha tenuto nei giorni scorsi una due giorni di riflessione sulla tematica “omosessualità e fede”. All’iniziativa ha dato eco anche il Progetto Gionata, progetto teso a coniugare omosessualità e dottrina cattolica. Uno sposalizio impossibile.
A questa due giorni ha partecipato anche l’associazione Kairos di Firenze la quale proclama in modo orgoglioso che “in Italia le famiglie si sono trasformate e, negli ultimi decenni, si sono sviluppati nuovi tipi di famiglia, tra cui troviamo le Famiglie Arcobaleno fondate non sulla biologia, ma sulla responsabilità, l’impegno quotidiano, il rispetto, e l’amore”.
Don Carrega, intervistato da Avvenire per commentare quel weekend formativo (?), ad un certo punto cesella questa perla: “Non voglio entrare in questioni dottrinali ma non si può negare che esista un valore quando ci si trova di fronte a persone che vivono in modo stabile e dignitoso la loro condizione”.
Noi invece vogliamo entrare in questioni dottrinali. L’omosessualità è definita dal Catechismo come condizione intrinsecamente disordinata (2358) e le condotte omosessuali come atti altrettanto disordinati (2357) e dunque sia la condizione che le condotte sono entrambe contrarie alla dignità della persona. Da qui in primis non si comprende come la condizione omosessuale possa venir vissuta in modo dignitoso.
In secondo luogo ci sfugge dove stia il valore aggiunto di chi volutamente e in modo stabile protrae nel tempo e consolida la propria omosessualità e le relazioni omosessuali. In realtà è vero tutto l’opposto.
La relazione omosessuale occasionale, cioè episodica, è meno grave di quella consolidata. Così come – mutatis mutandis e ci venga perdonato l’esempio che ai più apparirà a torto urticante – una rapina in banca è meno grave che mettere in piedi una banda dedita alle rapine in banca.
Se invece nella relazione omosessuale c’è qualcosa di buono va da sé che non si vede il motivo per cui opporsi anche ad un loro riconoscimento giuridico.
La conclusione del sillogismo è sempre opera di don Carrega che un paio di giorni fa ha celebrato il funerale di Franco Perrello, 83 anni, il quale insieme al compagno Gianni Reinetti è stato il protagonista della prima unione civile a Torino.
Dal pulpito il sacerdote prima di tutto ha forse tirato in ballo il Papa: «Tanti pensano che la prima parola da dire, in questi casi, sarebbe “scusa”. Scusa per le disattenzioni, scusa per la freddezza, scusa per le dimenticanze. Ma questo dovrebbe farlo qualcuno più importante di me”.
Chissà se don Carrega si riferisce alla dottrina della Chiesa sull’omosessualità – altrimenti perché chiamare in causa i piani alti della gerarchia cattolica? – ma se così fosse nessuna scusa è dovuta dato che tale dottrina non è erronea.
Sempre dal pulpito il responsabile della diocesi di Torino ha poi continuato: “Io, invece, ho detto loro ‘grazie’ perché con la loro ostinazione ci hanno permesso di pensare a una Chiesa in grande, accogliente, capace di andare oltre e di non lasciare indietro nessuno”. Il funerale si è dunque celebrato sia per il sig. Perrello sia per il Magistero.
Poi il sacerdote torinese, intervistato da Repubblica, si è spinto a dire che “il riconoscimento di queste unioni dovrà rientrare nella pastorale ordinaria”.
Riconoscimento in che senso chiede il giornalista? Riconoscimento giuridico come per le unioni civili? «Se una persona decide di fare questo passo [unione civile] credo sia un segno bello, perché ci si assume insieme delle responsabilità pubbliche. E la Chiesa ha sempre incoraggiato l’assunzione di responsabilità. Potrebbe essere anche un segno dello Spirito».
Ed infine chiosa: “Ma come si può sostenere che da un’unione omosessuale non possa scaturire niente di buono? Dobbiamo vincere resistenze e pregiudizi».
E’ ciò che appuntavamo prima: se la relazione omosessuale è cosa buona perché non legittimarla anche sul piano giuridico? Quindi il peccato mortale proprio degli atti omosessuali è diventato segno dello Spirito Santo e deve pure ricevere veste giuridica.
Le idee non cattoliche di don Carrega sono sposate anche da altri sacerdoti e le iniziative ecclesiali che tentano di incistare il sano portato dottrinale con le teorie del gender ormai non si contano più.
Don Cristiano Marcacci, responsabile diocesano della pastorale familiare di Pescara, sempre ad Avvenire rivela: «Il discorso è complesso, ma noi non pretendiamo di spiegare cosa fare o non fare, ma solo di accogliere, di aiutare ad elaborare una fatica, poi gli sviluppi sono mille e mille. La premessa è l’accoglienza offerta con amore. E questo fa cambiare le persone».
Ormai è noto: la parole talismano in merito all’omosessualità sono accoglienza, accompagnare, aiutare, quasi che la Chiesa fosse un hotel e le persone omosessuali i clienti da accogliere e accompagnare nelle loro stanze per ritemprarsi dalle fatiche di un lungo viaggio. Bene accompagnare etc. ma in quale direzione?
In nessuna direzione spiega don Marcacci con quella sua affermazione arrendevole “non pretendiamo di spiegare cosa fare o non fare” che illustra perfettamente il ruolo della nuova chiesa LGBT, non più maestra, ma solo sherpa.
La Chiesa invece – in merito all’omosessualità così come per tutte le altre situazioni esistenziali contrarie al volere di Dio – indica chiaramente al peccatore sia la meta – abbandonare la condizione omosessuale e ripudiare gli atti omosessuali – sia gli strumenti e il percorso che ovviamente può e deve essere affrontato gradualmente – grazia di Dio, cammino per fortificare le virtù, aiuto psicologico, opere concrete di carità etc.
E tutto questo stando vicino alla persona omosessuale: il famigerato accompagnamento. Oggi invece rimane solo quest’ultimo aspetto e quindi se non si vuole più indicare una meta diversa dall’omosessualità, ciò significa che si accompagnerà la persona nella direzione scelta da quest’ultima, cioè rimanendo sulla via dell’omosessualità stessa. E’ questione di logica.
C’è un ultimo aspetto in merito alla pastorale arcobaleno che merita attenzione. Don Leo Santorsola, fondatore del movimento “Famiglia e vita” di Matera che incontra i genitori di figli omosessuali, dichiara ancora una volta ad Avvenire: «La pastorale delle persone con orientamento omosessuale deve rientrare nella pastorale della famiglia. Se fino a qualche anno fa il nesso tra pastorale della famiglia e questione omosessuale poteva apparire incomprensibile, oggi alla luce delle rivendicazioni, già accolte in alcune legislazioni nazionali, di un “matrimonio” per persone con inclinazioni omosessuali, non è più così”.
Attenzione al percorso pericolosissimo che si sta tracciando all’interno della Chiesa.
L’omosessualità non riguarda più dal punto di vista pastorale solo i singoli, ma anche la relazione che i singoli hanno in famiglia. Ergo l’omosessualità riguarda anche la famiglia e dunque la pastorale familiare.
Questo punto di svolta è stato messo a tema per la prima volta dal doppio sinodo sulla famiglia e poi consacrato dall’Amoris laetitia. E fin qui – anche se un po’ tirata per i capelli – la questione che vede l’omosessualità come un problema che può riguardare le famiglie potrebbe avere anche una sua ragion d’essere.
Ma il passo successivo sarà certamente il seguente: se l’omosessualità interessa la famiglia allora si può parlare legittimamente di “famiglia” omosessuale. Accolta l’omosessualità in famiglia non la sfratteremo più.
Fonte: La NBQ