A voler parlar forbito, l’avversione al nuovo in italiano si definisce “misoneismo”, termine derivato dalla crasi di due parole greche, mίsos (odio) e néos (nuovo). Il termine viene usato in genere con intento dispregiativo, perché chi ha la mente chiusa alle novità è giudicato un individuo nostalgico, retrogrado, tradizionalista, conservatore e neofobico, vale a dire un ottuso.
E le citate parole del greco antico, insieme al latino, in questi giorni hanno dato dimostrazione di essere tutt’altro che morte e chi le ha studiate ha avuto la soddisfazione di scoprire che mai tanta fatica è stata così ben ricompensata, perché sono ancora vivissime e attuali.
La tentazione, giustappunto, di andare a verificare sui sudati vocabolari i significati più pertinenti che hanno portato alla primitiva traduzione in italiano del Padre Nostro, ha coinvolto tutti i coloro che hanno sufficiente memoria da sapere ancora districarsi quanto meno con il latinorum che, declamato da don Abbondio nei Promessi sposi per rifiutar di celebrare le nozze, tanto stizzì Renzo.
Anche in questi giorni la stizza la fa da padrona tra i cattolici, esasperati dall’ennesima novità di una Chiesa sempre più distante dalla loro sensibilità religiosa e dalla tradizione bimillenaria della loro fede. Al malumore istintivo del popolo di Dio però si affiancano i teologi e i canonisti, tutti concordi, secondo le proprie angolature, a suffragare il dissenso di quel “non ci indurre in tentazione” trasformato in “non abbandonarci alla tentazione”.
La motivazione del cambiamento risiederebbe nel dover rendere comprensibile a dei fedeli rozzi e ignoranti il vero significato delle parole di Cristo e del suo insegnamento.
Andrebbe spiegato però come mai in tutti questi secoli la preghiera del Pater Noster sia stata recitata da miliardi di credenti di tutte le classi sociali e culture producendo frutti di santità strepitosi e che sia stata amata da persone di bassissima conoscenza teologica come S. Teresina del Bambin Gesù, che la considerava la sua privilegiata.
Difatti anche in Francia la vecchia traduzione “Et ne nous soumets pas à la tentation”, cioè “ E non ci sottomettere alla tentazione”, è diventato “Et ne nous laisse pas entrer en tentation”, ovvero “E non lasciarci entrare nella tentazione”, ma sebbene sia migliore della nuova traduzione italiana parimenti in quel Paese sono sorti malumori e polemiche.
Non si vuole qui elencare le innumerevoli diatribe di cui strabordano i social, talvolta anche con ricostruzioni linguistiche fantasiose e imprecise. Va però detto, a onor del vero, che la decisione di modificare la sesta invocazione della preghiera insegnata da Gesù risale a sedici anni orsono, con Giovanni Paolo II pontefice e il cardinale Ratzinger allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e poi papa. Quindi non è un’iniziativa intrapresa da papa Francesco, come molti credono.
Minor fragore ha destato invece l’altro cambiamento annunciato, tra i tanti del nuovo messale romano di cui non abbiamo ancora notizia, cioè la modifica dell’inizio del Gloria in cui “pace in terra agli uomini di buona volontà” diventerà “pace in terra agli uomini, amati dal Signore”.
E’ un cambiamento sostanziale. Infatti l’invocare la pace su coloro che hanno buona volontà stava a indicare che solo una categoria poteva essere benedetta dal Signore, quella cioè di coloro che mostravano “una volontà buona” nei confronti del loro Creatore, ovvero una disposizione e una conseguente azione indirizzate all’avvento del Regno di Dio, all’ubbidienza verso le sue leggi e alla realizzazione delle opere discendenti dalla fede in Cristo e nel suo Vangelo.
L’attuale versione invece associa tutti gli uomini in un unico diritto alla pace in quanto tutti amati allo stesso modo. Non si dubita che Dio ami tutte le sue creature ma che, ad esempio, ami i peccatori impenitenti allo stesso modo dei martiri per amor suo è tutto da discutere. Perché a leggere il Vangelo di categorie umane minacciate da Gesù di morte eterna ce n’è una bella varietà.
Anche queste disquisizioni le lasciamo ai teologi, ma è di diritto porsi degli interrogativi.
Tornando al misoneismo manifestato dai cattolici nei confronti di tutte le “novità” introdotte dall’attuale pontificato, si deve ammettere che da cinque anni a questa parte l’unica continuità che si è vista non è con il Magistero della Chiesa cattolica ma con il persistere di rotture, più o meno ambigue, con tutti i fondamenti della nostra fede.
L’elenco delle originalità è diventato talmente lungo da non poter essere citate tutte le palesi contraddizioni con la dottrina che ci è stata insegnata e in cui finora abbiamo fermamente creduto.
Il malessere spirituale che ne è derivato è ormai permanente perché pone i credenti di fronte a un bivio: accettare supinamente tutto quanto stabilisce il romano pontefice, equivocando sul concetto di infallibilità ed elezione per opera dello Spirito Santo, oppure opporsi a quanto si discosta dalle verità della fede fin qui insegnate dai tre fondamentali della religione cattolica che sono le Sacre scritture, il Magistero e la Tradizione apostolica.
Sappiamo dal Catechismo della Chiesa cattolica (907), che i fedeli laici hanno il diritto, “e talvolta anche il dovere di manifestare ai sacri pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i pastori”.
E giova ricordare per l’ennesima volta quanto affermò S. Tommaso d’Aquino nella Somma teologica (II-II, arg. 33, art. 4): “Quando ci fosse un pericolo per la fede, i sudditi sarebbero tenuti a rimproverare i loro prelati anche pubblicamente. Perciò S. Paolo, che pure era suddito di S. Pietro, per il pericolo di scandalo nella fede lo rimproverò pubblicamente.”
Siamo tuttavia consapevoli che le critiche all’operato del papa sono passibili di pesanti censure, difatti frequentemente Sua Santità si è scagliato contro il “chiacchiericcio”, e sin nell’esortazione apostolica “Gaudete et exsultate” ha fatto riferimento a “varie forme di bullismo che, pur apparendo eleganti e rispettose e addirittura molto spirituali, provocano tanta sofferenza nell’autostima degli altri”. (Nota 95).
E scrive: “Anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui.” (115)
Vorremmo rispondergli con il monito che S. Caterina da Siena rivolse a papa Gregorio XI. Intanto che gli si rivolgeva appellandolo “babbo mio dolcissimo”, gli scriveva: “Io, se fussi in voi, temerei che ‘l Divino giudicio non venisse sopra di me”.
Paola de Lillo