Il capitolo ottavo, su divorziati risposati e dintorni, è quello che più stupisce dell’esortazione “Amoris lætitia”. È un’inondazione di misericordia. Ma è anche un trionfo della casuistica, pur così esecrata a parole. Con la sensazione, alla fine della lettura, che ogni peccato è scusato, tante sono le sue attenuanti, e quindi svanisce, lasciando spazio a praterie di grazia anche nel quadro di “irregolarità” oggettivamente gravi. L’accesso all’eucaristia va da sé, neppure è necessario che il papa lo proclami dai tetti. Bastano un paio di allusive note a piè di pagina.
E quelli che fin qui hanno obbedito alla Chiesa e si sono riconosciuti nella sapienza del suo magistero? Quei divorziati risposati che con tanta buona volontà, per anni o per decenni, hanno pregato, frequentato la messa, educato cristianamente i figli, fatto opere di carità, pur in una seconda unione diversa dalla sacramentale, senza fare la comunione?
E quelli che oltre a ciò hanno accettato di vivere “come fratello e sorella”, non più in contraddizione col precedente matrimonio indissolubile, e hanno così potuto accedere all’eucaristia? Che ne è di tutti questi, dopo il “liberi tutti” che tanti hanno letto nella “Amoris lætitia”?
C’è una nota a piè di pagina – un’altra, non le due citatissime che fanno balenare la comunione per i divorziati risposati – che riserva a quelli tra loro che hanno compiuto la scelta di convivere “come fratello e sorella” non una parola di conforto ma uno schiaffo.
Gli si dice infatti che facendo così possono far danno alla loro nuova famiglia, poiché “se mancano alcune espressioni di intimità, ‘non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli’”. Il sottinteso è che fanno meglio gli altri a condurre una vita da coniugi anche in seconde nozze civili, magari facendo anche la comunione.
Leggere per credere. È la nota numero 329, che impropriamente cita a sostegno del suo rimprovero nientemeno che la costituzione conciliare “Gaudium et spes”, al n. 51.