«Avvenne che questi tre Re, pur separati dall’enorme distanza dei loro regni e del tutto all’oscuro l’uno della decisione degli altri, si prepararono a cercare e ad adorare il Re che era nato, con doni veri e mistici di eccezionale ricchezza e con gioielli nobilissimi, facendosi accompagnare da una numerosa scorta reale». Poco dopo la metà del XIV secolo il carmelitano Giovanni di Hildesheim dava così inizio al viaggio dei Magi nell’Historia trium regum, una delle più originali opere letterarie del Medioevo latino dedicate ai tre saggi.
Una storia affascinante, in cui la vicenda narrativa è spesso connotata da un ritmo vivace, colorita da un latino rude, spesso disseminato di volgarismi, e risulta pronta allo spalancarsi improvviso delle meraviglie di un Oriente lontano e in buona parte sconosciuto, fitto di colori e forme come un caleidoscopio, descritto e vagheggiato con uno sguardo fanciullesco, stupito e curioso.
Nel fiorire della narrazione il fattore di unità è proprio la storia dei Magi, esito di una secolare stratificazione culturale, spesso favolosa ma intrisa di fede, le cui più remote radici si trovano nell’Oriente iranico e nel mondo ellenistico.
Qui ancor prima della nascita di Cristo i Magi erano ritenuti filosofi e teologi, attenti scrutatori del cammino degli astri, sapienti disposti a viaggiare alla ricerca di un evento salvifico, di un saôshyans (il salvatore nato da una vergine); ma erano anche avversati come ingannatori, seduttori e avvelenatori, spesso scambiati per meri ciarlatani.
Riguardo a queste figure, di cui restano sconosciuti il numero, i nomi e l’origine, il Vangelo di Matteo (2,1-12) si limita a un ritratto essenziale, opposto alle descrizioni dei vangeli apocrifi, ricchi di particolari curiosi e fantasiosi.
Come accade nel Vangelo arabo-siriaco (VI secolo) con il racconto del dono delle fasce del Bambino ai Magi, fasce che non possono bruciare e divengono oggetto di venerazione o nel Vangelo armeno dell’Infanzia, che presenta i Magi come tre fratelli: Melkon, re dei Persiani, Gaspar, re degli Indiani, Balthasar, re degli Arabi; i loro ricchi doni sono mirra, aloe, mussolina e porpora, nardo, cannella, incenso; oro, argento, pietre preziose e perle.
È l’Occidente cristiano a far proprie queste tradizioni, rielaborandole; si stabilizza così il numero dei Magi (in riferimento ai tre doni), se ne individuano i nomi (Gaspar, Melchior, Balthasar) e le diverse origini (alternativamente a rappresentare le tre età dell’uomo o le tre razze allora conosciute).
Ma soprattutto si forgia il mito della regalità. «Dobbiamo sapere che questi Magi furono tre re» commenta Remigio, maestro ad Auxerre, Reims e Parigi (fine IX secolo); affermazione ripresa e riproposta da altri commentatori, quali Anselmo di Laon e Onorio di Autun: «Questi tre Magi non furono ingannatori ma sapienti astrologi della terra di Persia e dei Caldei … e furono tre re» (XI secolo).
Si tratta di convinzioni elaborate dal colto ambiente monastico delle abbazie di Corbie e Stablo, Reichenau e Fulda, e dal centro di insegnamento di Auxerre; vennero diffuse soprattutto nelle regioni nord-occidentali francogermaniche, dove assai radicata era l’influenza di modelli sorti grazie alla fioritura culturale del IX secolo – poi definita “rinascimento carolingio” – e dove più forte era il senso della regalità legata alla figura di Carlo Magno.
Negli stessi decenni si sviluppa una particolare forma di dramma liturgico, sul modello del Quem quaeritis pasquale – quando la mattina di Pasqua si simula la ricerca di Cristo nel sepolcro vuoto – nasce il Quem quaeritis in praesepe.
Tre chierici, vestiti di seta e coronati, seguono una stella, quindi presentano i tre tradizionali doni e li depongono presso l’altare maggiore. Un bambino, che rappresenta un angelo, salito sull’altare canta il lieto annuncio, poi i Magi abbagliati dalla visione si allontanano, intonando l’inno di ringraziamento «Il re dei cieli è nato a Betlemme».
Anche la pietà popolare assorbe queste suggestioni ed elabora la preghiera litanica «Sancti tres reges / Gaspar, Melchior et Balthasar / orate pro nobis nunc et in hora / mortis nostrae».
Un impulso alla notorietà dei Magi è impresso dalla sottrazione delle reliquie custodite nella chiesa di Sant’Eustorgio a Milano, durante l’assedio che Federico I Barbarossa condusse contro la città ribelle.
Nel 1164 Rainaldo di Dassel, il suo abile e spregiudicato cancelliere, si impossessò di quelli che riteneva essere i corpi dei Magi e, con un viaggio avventuroso e non privo di rischi, li trasferì sino a Colonia, nella chiesa di San Pietro, lì dove sarebbe poi sorta l’imponente cattedrale gotica.
I tre corpi vennero in seguito deposti in un’arca aurea appositamente costruita. Secondo un cronista coevo, Robert di Torigny, una inventio sui corpi dei Magi ne rilevò l’assoluta integrità e un’età apparente di quindici, trenta e sessant’anni. Colonia rimase fedele ai suoi re.
Nelle feste liturgiche più importanti il Santissimo Sacramento era portato in processione da tre sacerdoti, adornati da corone auree; i nomi dei Magi si affermarono nell’onomastica locale.
A Colonia venne elaborata la più antica vita di sant’Eustorgio, il vescovo che avrebbe recato le reliquie dei re da Costantinopoli a Milano; nel 1474 si coniò una moneta su cui vennero impressi i nomi dei tre re.
Anche in Milano lungo il XIV secolo tornò a svilupparsi il culto dei Magi, celebrato da un pittoresco corteo che nel tempo di Natale si snodava dalle colonne di San Lorenzo sino alla chiesa di sant’Eustorgio (come del resto accade ancora oggi).
E la città non dimenticò il suo legame con le reliquie: tentarono un recupero, ma con scarso successo, prima il duca Ludovico il Moro e quindi l’arcivescovo Carlo Borromeo. Solo agli inizi del Novecento il cardinal Andrea Ferrari ottenne dall’arcivescovo di Colonia alcuni frammenti ossei per la venerazione dei milanesi.
La storia dei Magi non si era dunque fermata alle suggestive scene scaturite dalla penna di Giovanni di Hildesheim; il mito era profondamente entrato nei racconti, nelle tradizioni popolari e colte dell’Occidente medievale e moderno, come potrebbero agevolmente dimostrare le numerose testimonianze iconografiche sviluppatesi nelle regioni d’Europa, le pagine di tanti e diversi racconti e leggende, le usanze che segnano profondamente e in modo originale la tradizione culturale europea.
A fronte del lussureggiante fiorire del mito sta, tuttavia, la disarmante semplicità del Vangelo di Matteo, a ricordare che i Magi erano semplicemente uomini saggi alla ricerca di Dio, capaci di intraprendere un viaggio incerto e rischioso e di perseguire con tenacia la meta sperata.
È certamente questo, oltre le fantasie e i sogni delle tradizioni europee, il dono più prezioso che i saggi venuti da Oriente hanno lasciato agli uomini di ogni tempo.
IL TIMONE – N.59 – ANNO IX – Gennaio 2007 pag. 26 – 27