Le carestie e la violenza dei governi bene intenzionati.

La scarsità di produzione alimentare non è la vera causa delle carestie.  Quando nel 1981 il futuro premio Nobel per l’economia Amartya Sen formulò questo  giudizio nel suo Poverty and Famines: An Essay on Entitlement and  Deprivation, molti si sentirono folgorati da una visione nuova e  rivoluzionaria. In realtà nuova era solo la confezione in cui il giudizio era  avvolto: quella rappresentata dal concetto di “entitlement”, che sarebbe  l’effettivo accesso a beni e servizi (compresi i beni alimentari) da parte del  cittadino o suddito di una certa parte del mondo, sulla base dei diritti e delle  opportunità che gli sono riconosciuti dal sistema in quel luogo.

 

In italiano la  parola è stata tradotta come “attribuzione”. Prendendo come esempio la carestia  del Bengala del 1943-44, Sen affermava che ad aver causato la morte di un numero  compreso fra 1,5 e 4 milioni di persone non era stata la scarsità di cibo dovuta  alla siccità e ai conseguenti mancati raccolti, ma le modeste attribuzioni di  una parte della popolazione, che l’aveva esposta ai morsi della carestia benché  il paese a cui appartenevano, l’India Britannica, possedesse risorse alimentari  sufficienti a sfamarli.

 

Le asserzioni di Sen secondo cui la fame negli strati  popolari più deboli era stata scatenata da un fenomeno di inflazione dei prezzi  e che in realtà nel 1943 il Bengala aveva prodotto più riso che nel 1941 sono  state poi criticate e smentite da altri autori. Ma il concetto secondo cui nelle  epoche successive alla Rivoluzione industriale la carestia non può mai essere  esclusivamente attribuita a fattori naturali, ma sempre è legata all’economia  politica e alle scelte dei governi, da allora è stato riabilitato.

 

Da quando  l’agricoltura è meccanizzata e le tecniche di coltivazione si sono perfezionate,  sempre esistono regioni eccedentarie dentro a un paese che possono sovvenire ai  bisogni delle regioni che soffrono una penuria, oppure esistono eccedenze di  produzione all’estero che possono essere acquistate e redistribuite dallo Stato  centrale alle popolazioni bisognose: se ciò non avviene, siamo in presenza di  cause politiche della carestia.

 

Dall’Irlanda alla Cina

La natura politica delle carestie  è stata riscoperta da Sen, ma era già stata formulata molto tempo prima. Adam  Smith nel suo famoso libro La ricchezza delle nazioni (1776) indicava  la responsabilità dei governi nell’insorgere delle carestie là dove scriveva che  le “cattive stagioni” causano “penuria”, ma è «la violenza dei governi bene  intenzionati che può convertire la penuria in carestia».

Senza stiracchiare  troppo la definizione, «la violenza dei governi bene intenzionati» spiega la  morte per carestia di decine di milioni di esseri umani dalla Great Famine che  decimò gli irlandesi fra il 1845 e il 1852 fino alla Tremenda Marcia, il nome  con cui è ricordata la fame che afflisse la Corea del Nord fra il 1994 e il  1998. Passando attraverso la carestia sovietica del 1932-33 causata dalla  collettivizzazione dell’agricoltura voluta da Josif Stalin, quella cinese dovuta  alle follie industrialiste del Grande Balzo in avanti (1958-62) concepito da Mao  Zedong, le carestie etiopiche prima sotto il negus Hailé Selassié (1973) e poi  sotto il regime marxista del Derg capeggiato dal colonnello Menghistu  (1986).

 

È facile notare che, tranne il primo e la parziale eccezione dell’Etiopia,  tutti gli altri esempi riguardano carestie avvenute in paesi comunisti in tempo  di pace: la «violenza del governo ben intenzionato» si è consumata in tutti  questi casi sotto forma di progetti di ingegneria sociale ed economica attuati  su basi rigidamente ideologiche, condotti con metodi autoritari o terroristici e  finiti puntualmente molto male. In tutti i casi i governi hanno giustificato i  fallimenti e i decessi di milioni di persone appellandosi a calamità naturali  che in realtà sono state al massimo concause.

 

Ma la prima strage per fame dei tempi moderni non ha avuto luogo in un paese  comunista, bensì in una “colonia” dell’Impero Britannico: l’Irlanda di metà  Ottocento. La causa immediata della carestia che nel periodo 1845-52 causò fra  gli 1 e gli 1,5 milioni di morti e innescò un processo migratorio per il quale  il paese perse metà della sua popolazione (passando dagli 8,1 milioni di  abitanti del 1841 ai 5,1 del 1881 e infine a 4,2 nel 1926) è stata la  peronospora della patata, un parassita che causò perdite pari al 70-80 per cento  dei raccolti delle annate precedenti la carestia.

 

Va però subito notato che la  peronospora colpì praticamente tutti i paesi europei, ma solo in Irlanda causò  una carestia tanto letale. E questo dipese dal fatto che a quel tempo ben un  terzo di tutti gli irlandesi dipendeva per la propria autosufficienza alimentare  dalla coltivazione delle patate. Questa massiccia dipendenza era a sua volta  figlia dei fattori di economia politica operanti: dopo l’annessione al Regno  Unito nel 1801, le terre irlandesi erano diventate in gran parte proprietà di  latifondisti inglesi protestanti, che le affittavano a intermediari i quali a  loro volta le sub-affittavano alle famiglie di contadini cattolici irlandesi.

 

L’avidità degli intermediari e la soppressione delle British Corn Laws avevano  costretto i contadini ad affidarsi alla monocoltura della patata. Gli  intermediari, infatti, suddividevano le proprietà in lotti sempre più piccoli  per sub-affittarli a un numero sempre maggiore di famiglie e così aumentare gli  introiti dagli affitti.

 

Le leggi sui cereali avevano istituito le barriere  protezionistiche che avevano alimentato il boom di produzione in Irlanda, e una  volta abolite i latifondisti avevano trovato più redditizio sostituire alle  coltivazioni l’allevamento di bovini da carne. L’unica coltivazione che  garantiva la sicurezza alimentare ai contadini irlandesi in rapporto alla  pochissima terra a loro disposizione era la patata. Così furono gettate le basi  della carestia che cambiò la storia dell’isola.

 
 

La più letale delle carestie provocate da decisioni politiche resta comunque  quella coincidente col Grande Balzo in avanti di maoista memoria. Nei quattro  anni fra il 1958 e il 1962 morirono nelle campagne cinesi, secondo le differenti  stime, un numero di persone compreso fra 30 e 45 milioni. A causare la strage  furono le politiche industriali e agricole imposte dal vertice del Partito  comunista cinese.

Tutto cominciò alla fine del 1957, quando Mao decise che  l’industria pesante e l’agricoltura della Cina avrebbero dovuto superare per  produzione quelle della Gran Bretagna nell’arco di 15 anni. A questo scopo  ordinò di raddoppiare in un anno la produzione cinese di acciaio, di  rivoluzionare le tecniche delle colture e dell’allevamento (sulla base delle  teorie dello pseudo-scienziato sovietico Trofim Lysenko) e di riorganizzare il  mondo rurale in comuni popolari dove la proprietà privata sarebbe stata  integralmente abolita: tutta la produzione andava consegnata a un’autorità  centrale e persino le cucine familiari dovevano essere smantellate e sostituite  con mense popolari che avrebbero provveduto ai pasti dei contadini. In ogni  cortile vennero costruite fornaci, alimentate da ogni tipo di legname e di  metallo.

 

Cento milioni di contadini furono obbligati a dedicarsi alla  costruzione e all’alimentazione delle fornaci, trascurando il lavoro dei campi.  Le piante vennero coltivate così densamente da soffocarsi l’una con l’altra e i  semi interrati all’assurda profondità di due metri; villaggi furono abbattuti  per fare posto a immense porcilaie che non entrarono mai in funzione. In  mancanza di personale, specializzato dalle fornaci uscì un materiale  inutilizzabile, mentre la produzione agricola crollò.

 

Per paura di rappresaglie,  i responsabili delle comuni dichiararono alle autorità di avere centrato e  superato gli obiettivi di produzione. Lo storico Frank Dikötter stima che dai  due ai tre milioni di cinesi furono picchiati o torturati a morte, o  sommariamente sottoposti alla pena capitale, per non aver raggiunto gli  obiettivi di produzione fissati, per aver dichiarato pubblicamente che erano  irraggiungibili, o per aver osato criticare la politica del governo. Dopo che le  mense collettive ebbero consumato le riserve e che il governo ebbe continuato ad  esportare i presunti surplus di produzione, la carestia s’installò e iniziarono  i decessi a milioni. Le politiche che avevano portato a quegli esiti furono  rettificate solo a partire dal 1962.

Il tracollo sovietico

 

Le informazioni  sulla carestia causata in Cina dal Grande Balzo sono rimaste segrete fino agli  anni Novanta; per conoscere quelle relative alla carestia sovietica del 1932-33,  che afflisse soprattutto l’Ucraina e causò circa 7 milioni di morti, si è dovuto  aspettare la perestrojka di Mikhail Gorbaciov. Anche nel caso sovietico la  principale causa del tracollo fu la collettivizzazione forzata dell’agricoltura,  che innescò una serie di atti e di comportamenti estremamente deleteri per la  produzione: proprietà dei contadini furono distrutte per punire chi non si  sottometteva, molti di loro uccisero il bestiame per non consegnarlo alle  autorità e si astennero dal lavoro nella convinzione che tutta la produzione  sarebbe stata loro espropriata; tonnellate di cereali destinati alla seminagione  furono sequestrati per il consumo, compromettendo la semina per l’anno  successivo.

 

Il Decreto per la protezione della proprietà socialista emesso il 7  agosto 1932 autorizzava la polizia e i dirigenti del partito comunista a  confiscare qualunque quantità di cereali detenuta dai contadini, ai quali era  espressamente vietato mangiare il prodotto del loro raccolto. Il furto di “proprietà socialista” poteva esser punito con pene da dieci anni alla condanna  a morte. Militari e poliziotti erano autorizzati a sparare sugli individui  sorpresi a spigolare nei campi dove era già stata effettuata la mietitura. Anche  quando si trattava di bambini.

 
Rodolfo Casadei

Articolo tratto dallo speciale Più Mese di Tempi di dicembre
 
Fonte: Tempi.it