Per quanto io tenda a dismettere con una certa facilità il portamento regale – provate voi a tenere una condotta da alto lignaggio quando, per dire, una figlia divelle il tubo dello scarico in bagno facendo la lap dance e allaga la stanza e i vostri piedi muniti di collant nuovi e miracolosamente non bucati, sfoderati in via eccezionale per la riunione a scuola che dovrebbe iniziare dodici minuti fa – per quanto io dunque deponga spesso la compostezza e la pacatezza che la mia condizione comporterebbe, c’è una cosa che non posso dimenticare.
Noi siamo di stirpe regale. Nostro padre è Dio. Lui è il re dei re. È re ma è padre. E non ha considerato un tesoro geloso la sua regalità, ma anzi vuole farci come lui.
Noi, dunque, siamo principi, e da principi possiamo, dobbiamo attraversare le cose della vita, sapendo che tutto è nostro, perché chi lo ha creato è uno di famiglia, e in famiglia, si sa, tutto è di tutti (a parte la Coca light, che è solo mia: con la scusa che ai bambini fa male riesco a preservarla, mentre per il resto da noi la proprietà privata, soprattutto dei genitori, non esiste: la palette Black dahlia di Estée Lauder si usa abitualmente per truccare la Barbie, per non parlare di iPad, iPod, iPhone e della riserva ex-segreta di cioccolatini per gli ospiti).
Quando pensiamo a questo – il mondo è nostro, noi siamo redenti, siamo figli del re, ma soprattutto siamo amati infinitamente – come non gioire, come non esultare, come non ringraziare dalla mattina alla sera? Dio ha chiamato noi, proprio noi, fatti così come siamo, ci ha immaginati e sognati e amati dal grembo della nostra mamma (sì, anche il mio naso gobbuto, pare: un giorno me lo faccio spiegare). Siamo nati e non moriremo più.
E allora non c’è che da ringraziare, dalla mattina alla sera. Ogni giorno cantare il Te Deum, ogni giorno. Io, per quanto mi riguarda, chissà, forse alla fine della vita avrò molte cose da rimproverarmi, ma una no, non me la rimprovererò: non rimpiangerò di non avere apprezzato tutto quello che ho. Me stessa, intanto. Un corpo a cui alla fine mi sono affezionata, e una mente che ancora regge, sebbene per far spazio a informazioni su tachipirina e denti da latte abbia dovuto rimuovere quelle quattro nozioni appiccicate – evidentemente con lo sputo – in anni di studio. Ho un marito silenzioso ma solidissimo, che mi ama più di quanto meriti, e quattro figli che ancora ogni sera, ogni singola sera da più di tredici anni, vado a spiare nel letto di nascosto, mentre dormono, sniffando alito e profumo di carne.
E quando mio marito torna tardi dal lavoro ogni volta la stessa scena: lo aspetto e poi gli dico «corri, vieni a vedere una cosa meravigliosa», e cerco di portarlo in camera dei figli ad ammirarli (non sempre mi riesce, a volte risponde che già li conosce e che preferirebbe riposare, visto che siamo nel cuore della notte e li rivedrà dopo cinque ore per portarli a scuola). Abbiamo di che vivere dignitosamente, non troppo perché ci dimentichiamo di Dio, non troppo poco perché lo malediciamo, come dice la Bibbia.
Ho tanti amici e tante persone care, spesso anche compagni di cammino verso Dio, per cui ringrazio Lui, per la fantasia con cui ha immaginato ognuno di loro, mettendo in ognuno qualcosa di bello (e a volte di bellissimo).
E la cosa più immensa: posso mangiare anche ogni giorno il corpo di Cristo, una cosa che a pensarci vengono i brividi. Posso pregare e andare in chiesa senza essere sgozzata per questo, posso leggere libri che mi parlino di Dio e altri che solo mi divertano, posso correre tra le catacombe dell’Appia antica, sul suolo bagnato dal sangue dei martiri, percorso da Pietro e Paolo, e gioire non so se più, in quel momento, perché sono cristiana o perché sto correndo.
Il passo successivo, poi, è imparare a ringraziare anche delle croci, ma per quello ci stiamo attrezzando. Conosco persone che sanno farlo, e lo so, loro sono un pezzo avanti rispetto a me. Perché il punto del battesimo è imparare a far diminuire l’uomo, e crescere Dio. E questo si fa passando dalla croce: chi dopo una croce grossa, tutta insieme, e chi attraverso le piccole croci quotidiane, la banalità, la mediocrità, insomma la parete aspra e scabrosa della vita normale. Viste da vicino le chiamiamo rotture di scatole, questo purgatorio quotidiano, ma se uno allontana lo sguardo si capisce che questa macerazione abbracciata per amore sta lavorando e lavorando bene, ci fa felici e ci salva.
E allora quello che ci fa soffrire, ci scomoda, ci disturba, quando cominciamo a capire che effetto meraviglioso ha sulla nostra anima, ci diventa «più caro dell’Eremo», come diceva san Francesco del suo amato rifugio per la preghiera solitaria, spesso abbandonato per stare in mezzo agli altri. Amare le telefonate importune, i capricci dei figli, il capo che non ci valorizza, una risposta brusca quando volevamo un complimento, un invito quando volevamo la solitudine e la solitudine quando volevamo parlare, il freddo, il pollo che si brucia, il sonno, il nervosismo…
Questo dunque è il mio buon proposito per il prossimo anno: imparare a dire grazie anche per le croci, questa misteriosa, segreta, preziosa via verso Dio, nostra felicità.
Fonte: Tempi.it