Non so se lo facciano ancora oggi ma un tempo i bambini i cui capricci non venivano soddisfatti all’istante proclamavano lo sciopero della fame e della sete; a tavola incrociavano piccati le braccia ed esclamavano: «…e io non mangio!». Ingrugniti, tenevano il muso ai genitori, opponendo il loro piccolo ricatto.
I genitori, allora, si prodigavano per convincerli con le buone e i primi tentativi erano di solito vani. Poi passavano ai contro-ricatti: e noi non ti compriamo questo o non ti regaliamo quest’altro, non ti mandiamo qui e non ti permettiamo là. Seguiva un’estenuante trattativa dall’esito incerto.
La sottile perfidia del bambino in questione era già stata compiutamente analizzata da sant’Agostino nelle sue Confessioni e ne traeva prova provata della realtà del Peccato Originale: i bambini non erano (né sono) affatto innocenti, immacolate creature ingenue e senza macchia. Al contrario, sanno perfettamente, e fin da subito, cos’è bene e cos’è male, scegliendo sempre senza fallo il secondo. Ci vogliono anni di educazione perché imparino a reprimere la naturale inclinazione al secondo per praticare il più possibile il primo. Un bambino che dice in faccia ai genitori «…e io non mangio!» sa perfettamente di infliggere loro un dispiacere. Sa che gli vogliono talmente bene da seriamente preoccuparsi della sua salute, che verrebbe compromessa – in una fase così delicata come quella della crescita – dal digiuno. Il ricatto è, dunque, tanto più maligno quanto più fa leva sull’amore altrui, quell’amore viscerale che rende i genitori del tutto disarmati di fronte ai loro piccoli.
Un tempo ancora più antico, quando i figli erano tanti e non c’era tempo da perdere per i capricci di ciascuno, all’annuncio «…e io non mangio!» seguiva immediato uno scapaccione, cui i più nerboruti facevano seguire l’inchino forzato dell’incauto verso il piatto. E una minaccia di ritorsioni ancora più gravi se la pietanza non fosse stata consumata tutta e immantinente. Mio nonno mi narrava di uno dei suoi lavoranti, il quale, di temperamento flemmatico, prelevò il piatto di minestra dal cospetto del riottoso e andò a riporlo nella madia. Da quel momento, e per i giorni a venire, quando lo scioperante diceva di aver fame, gli veniva messo davanti quel piatto. Se lo rifiutava perché rancido, pazienza. Ma non lo si buttava. Doveva mangiare quello. E dopo quattro giorni lo mangiò. Con le lacrime agli occhi, ma lo mangiò.
In un tempo precedente, quando la fame era una realtà collettiva, concreta e costituiva la principale battaglia quotidiana, erano i genitori ad applicare la serrata: «A letto senza cena!». Il che significava, in assenza di riscaldamento diffuso, una notte senza sonno. Oggi il cibo non è più un problema e, anzi, il premio consiste nel non mangiare manicaretti cucinati in casa bensì i panini di McDonald’s.
Così, il ricatto dell’«…e io non mangio!» ormai lo fanno solo gli ottantenni. Subito coccolati dai «genitori» istituzionali di questa nostra dolente democrazia: no, no, Marcuccio, ti preghiamo, mangia, caro, non farci soffrire. E lui, vedendo che solo se non mangia gli danno retta, si chiude in una clinica privata dal titolo confessionale, accudito dalle suore, visitato amorevolmente dal premier, dal presidente, dai capi politici, dai direttori dei media, tutti a far sapere all’universo mondo che il Marco nazionale è un martire, un eroe, rischia la vita, sta per morire per colpa dell’ingrata Patria.
Invece è eterno, perché sono cinquant’anni che fa le bizze, batte i piedini per terra, tiene il broncio al Parlamento e al Governo ma non è mai morto, anzi, più vispo di prima si fa riprendere dalle telecamere sotto l’icona della Vergine o quella del Crocifisso appeso al suo capezzale di periodico moribondo. Il tutto scandito dalle diagnosi allarmate dei primari clinici che informano gli italiani su quanto siano serie le condizioni dello scioperante in nome e per conto di altissimi valori morali. Voglio l’amnistia generale, sennò non mangio! Voglio apparire in tivù, sennò non bevo! E tutti corrono ad accontentarlo, poverino, non sia mai che torni a vestirsi da fantasma o spunti col cerotto sulla bocca o candidi al Senato una prostituta.
Un padre di famiglia licenziato che minaccia di darsi fuoco davanti al Quirinale viene subito incriminato per procurato allarme o intralcio all’ordine pubblico. Se poi riesce a darsi fuoco, chissenefrega. Come ha detto, a mo’ di stizzito epitaffio, l’attuale premier, la colpa è dei suoi predecessori al governo. L’impennata di sucidi da persecuzione fiscale? Una mera statistica, come diceva Stalin. Ma se il Marco (Giacinto) Pannella perde un chilo è una tragedia nazionale. Tranquilli, non morirà neanche questa volta. Certa erba, com’è noto, non muore mai.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana