Stando a un’inchiesta del Consiglio d’Europa tra gli studenti di scienze in tutti i Paesi della Comunità, quasi il 30 per cento è convinto che Galileo Galilei sia stato arso vivo dalla Chiesa sul rogo. La quasi totalità (il 97 per cento) è comunque convinta che sia stato sottoposto a tortura. Coloro – non molti, in verità – che sono in grado di dire qualcosa di più sullo scienziato pisano, ricordano, come frase “sicuramente storica”, un suo “Eppur si muove!”, fieramente lanciato in faccia, dopo la lettura della sentenza, agli inquisitori convinti di fermare il moto della Terra con gli anatemi teologici.
Quegli studenti sarebbero sorpresi se qualcuno dicesse loro che siamo, qui, nella fortunata situazione di poter datare esattamente almeno quest’ultimo falso: la “frase storica” fu inventata a Londra, nel 1757, da quel brillante quanto spesso inattendibile giornalista che fu Giuseppe Baretti.
Il 22 giugno del 1633, nel convento romano di Santa Maria sopra Minerva tenuto dai domenicani, udita la sentenza, il Galileo “vero” (non quello del mito) sembra mormorasse un ringraziamento per i dieci cardinali – tre dei quali avevano votato perché fosse prosciolto – per la mitezza della pena.
Anche perché era consapevole di aver fatto di tutto per indisporre il tribunale, cercando per di più di prendere in giro quei giudici – tra i quali c’erano uomini di scienza non inferiore alla sua – assicurando che, nel libro contestatogli (e che era uscito con una approvazione ecclesiastica estorta con ambigui sotterfugi), aveva in realtà sostenuto il contrario di quanto si poteva credere.
Di più: nei quattro giorni di discussione, ad appoggio della sua certezza che la Terra girasse attorno al Sole aveva portato un solo argomento. Ed era sbagliato. Sosteneva, infatti, che le maree erano dovute allo “scuotimento” delle acque provocato dal moto terrestre.
Tesi risibile, alla quale i suoi giudici-colleghi ne opponevano un’altra che Galileo giudicava “da imbecilli”: era, invece, quella giusta. L’alzarsi e l’abbassarsi dell’acqua dei mari, cioè, è dovuta all’attrazione della Luna. Come dicevano, appunto, quegli inquisitori insultati sprezzantemente dal Pisano.
Altri argomenti sperimentali, verificabili, sulla centralità del Sole e sul moto terrestre, oltre a questa ragione fasulla, Galileo non seppe portare. Né c’è da stupirsi: il Sant’Uffizio non si opponeva affatto all’evidenza scientifica in nome di un oscurantismo teologico. La prima prova sperimentale, indubitabile, della rotazione della Terra è del 1748, oltre un secolo dopo. E per vederla quella rotazione, bisognerà aspettare il 1851, con quel pendolo di Foucault caro a Umberto Eco.
In quel 1633 del processo a Galileo, sistema tolemaico (Sole e pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema copernicano difeso dal Galilei (Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non erano che due ipotesi quasi in parità, su cui scommettere senza prove decisive. E molti religiosi cattolici stessi stavano pacificamente per il “novatore” Copernico, condannato invece da Lutero.
Del resto, Galileo non solo sbagliava tirando in campo le maree, ma già era incorso in un altro grave infortunio scientifico quando, nel 1618, erano apparse in cielo delle comete. Per certi apriorismi legati appunto alla sua “scommessa” copernicana, si era ostinato a dire che si trattava solo di illusioni ottiche e aveva duramente attaccato gli astronomi gesuiti della Specola romana che invece – e giustamente – sostenevano che quelle comete erano oggetti celesti reali.
Si sarebbe visto poi che sbagliava ancora, sostenendo il moto della Terra e la fissità assoluta del Sole, mentre in realtà anche questo è in movimento e ruota attorno al centro della Galassia.
Niente frasi “titaniche” (il troppo celebre “Eppur si muove!”) comunque, se non nelle menzogne degli illuministi e poi dei marxisti – vedasi Bertolt Brecht – che crearono a tavolino un “caso” che faceva (e fa ancora) molto comodo per una propaganda volta a dimostrare l’incompatibilità tra scienza e fede.
Torture? carceri dell’Inquisizione? addirittura rogo? Anche qui, gli studenti europei del sondaggio avrebbero qualche sorpresa. Galileo non fece un solo giorno di carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica. Anzi, convocato a Roma per il processo, si sistemò (a spese e cura della Santa Sede), in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere personale. Dopo la sentenza, fu alloggiato nella splendida villa dei Medici al Pincio.
Da lì, il “condannato” si trasferì come ospite nel palazzo dell’arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici insigni che gli volevano bene, che lo avevano aiutato e incoraggiato e ai quali aveva dedicato le sue opere. Infine, si sistemò nella sua confortevole villa di Arcetri, dal nome significativo “Il gioiello”.
Non perdette né la stima né l’amicizia di vescovi e scienziati, spesso religiosi. Non gli era mai stato impedito di continuare il suo lavoro e ne approfittò difatti, continuando gli studi e pubblicando un libro – Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze che è il suo capolavoro scientifico.
Né gli era stato vietato di ricevere visite, così che i migliori colleghi d’Europa passarono a discutere con lui. Presto gli era stato tolto anche il divieto di muoversi come voleva dalla sua villa. Gli rimase un solo obbligo: quello di recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali.
Questa “pena”, in realtà, era anch’essa scaduta dopo tre anni, ma fu continuata liberamente da un credente come lui, da un uomo che per gran parte della sua vita era stato il beniamino dei Papi stessi; e che, ben lungi dall’ergersi come difensore della ragione contro l’oscurantismo clericale, come vuole la leggenda posteriore, poté scrivere con verità alla fine della vita: “In tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa“.
Morì a 78 anni, nel suo letto, munito dell’indulgenza plenaria e della benedizione del papa. Era l’8 gennaio 1642, nove anni dopo la “condanna” e dopo 78 di vita. Una delle due figlie suore raccolse la sua ultima parola. Fu: “Gesù!“.
1 suoi guai, del resto, più che da parte “clericale” gli erano sempre venuti dai “laici”: dai suoi colleghi universitari, cioè, che per invidia o per conservatorismo, brandendo Aristotele più che la Bibbia, fecero di tutto per toglierlo di mezzo e ridurlo al silenzio. La difesa gli venne dalla Chiesa, l’offesa dall’Università.
In occasione della recente visita del papa a Pisa, un illustre scienziato, su un cosiddetto “grande” quotidiano, ha deplorato che Giovanni Paolo II “non abbia fatto ulteriore, doverosa ammenda dell’inumano trattamento usato dalla Chiesa contro Galileo“. Se, per gli studenti del sondaggio da cui siamo partiti, si deve parlare di ignoranza, per studiosi di questa levatura il sospetto è la malafede.
Quella stessa malafede, del resto, che continua dai tempi di Voltaire e che tanti complessi di colpa ha creato in cattolici disinformati. Eppure, non solo le cose non andarono per niente come vuole la secolare propaganda; ma proprio oggi ci sono nuovi motivi per riflettere sulle non ignobili ragioni della Chiesa. Il “caso” è troppo importante, per non parlarne ancora.
Il Galilei – alla pari, del resto, di un altro cattolico fervente come Cristoforo Colombo – convisse apertamente more uxorio con una donna che non volle sposare, ma dalla quale ebbe un figlio maschio e due femmine. Lasciata Padova per ritornare in Toscana, dove gli era stata promessa maggior possibilità di far carriera, abbandonò in modo spiccio (da qualcuno, anzi, sospettato di brutalità) la fedele compagna, la veneziana Marina Gamba, togliendole anche tutti i figli.
“Provvisoriamente, mise le figliuole in casa del cognato, ma doveva pensare a una loro sistemazione definitiva: cosa non facile perché, data la nascita illegittima, non era probabile un futuro matrimonio. Galileo pensò allora di monacarle. Senonché le leggi ecclesiastiche non permettevano che fanciulle così giovani facessero i voti, e allora Galileo si raccomandò ad alti prelati per poterle fare entrare egualmente in convento: così, nel 1613, le due fanciulle – una di 13 e l’altra di 12 anni – entravano nel monastero di San Matteo d’Arcetri e dopo poco vestirono l’abito. Virginia, che prese il nome di suor Maria Celeste, riuscì a portare cristianamente la sua croce, visse con profonda pietà e in attiva carità verso le sue consorelle. Livia, divenuta suor Arcangela, soccombette invece al peso della violenza subita e visse nevrastenica e malaticcia” (Sofia Vanni Rovighi).
Sul piano personale, dunque, sarebbe stato vulnerabile.
“Sarebbe”, diciamo, perché, grazie a Dio, quella Chiesa che pure lo convocò davanti al Sant’Uffizio, quella Chiesa accusata di un moralismo spietato, si guardò bene dal cadere nella facile meschineria di mescolare il piano privato, le scelte personali del grande scienziato, con il piano delle sue idee, le sole che fossero in discussione. “Nessun ecclesiastico gli rinfaccerà mai la sua situazione familiare. Ben diversa sarebbe stata la sua sorte nella Ginevra di Calvino, dove i “concubini” come lui venivano decapitati” (Rino Canimilleri).
E’ un’osservazione che apre uno spiraglio su una situazione poco conosciuta. Ha scritto Georges Bené, uno dei maggiori conoscitori di questa vicenda: “Da due secoli, Galileo e il suo caso interessano, più che come fine, come mezzo polemico contro la Chiesa cattolica e contro il suo “oscurantismo” che avrebbe bloccato la ricerca scientifica”.
Lo stesso Joseph Lortz, cattolico rigoroso e certo ancora lontano da quello spirito di autoflagellazione di tanta attuale storiografia clericale, autore di uno dei più diffusi manuali di storia della Chiesa, cita, condividendola, l’affermazione di un altro studioso, il Dessauer: “Il nuovo mondo sorge essenzialmente al di fuori della Chiesa cattolica perché questa, con Galileo, ha cacciato gli scienziati“.
Questo non risponde affatto alla verità. Il temporaneo divieto (che giunge peraltro, lo vedremo meglio, dopo una lunga simpatia) di insegnare pubblicamente la teoria eliocentrica copernicana, è un fatto del tutto isolato: né prima né dopo la Chiesa scenderà mai (ripetiamo: mai) in campo per intralciare in qualche modo la ricerca scientifica, portata avanti tra l’altro quasi sempre da membri di ordini religiosi.
Lo stesso Galileo è convocato solo per non avere rispettato i patti: l’approvazione ecclesiastica per il libro “incriminato”, i Dialoghi sopra i massimi sistemi, gli era stata concessa purché trasformasse in ipotesi (come del resto esigevano le stesse ancora incerte conoscenze scientifiche del tempo) la teoria copernicana che egli invece dava ormai come sicura. Il che non era ancora.
Promise di adeguarsi: non solo non lo fece, dando alle stampe il manoscritto così com’era, ma addirittura mise in bocca allo sciocco dei Dialoghi, dal nome esemplare di Simplicio, i consigli di moderazione datigli dal papa che pur gli era amico e lo ammirava.
Galileo, quando è convocato per scolparsi, si sta occupando di molti altri progetti di ricerca, non solo di quello sul movimento della Terra o del Sole. Era giunto quasi ai settant’anni avendo avuto onori e aiuti da parte di tutti gli ambienti religiosi, a parte un platonico ammonimento del 1616, ma non diretto a lui personalmente; subito dopo la condanna potrà riprendere in pieno le ricerche, attorniato da giovani discepoli che formeranno una scuola.
E potrà condensare il meglio della sua vita di studio negli anni che gli restano, in quei Discorsi sopra due nuove scienze che è il vertice del suo pensiero scientifico.
Del resto, proprio nell’astronomia e proprio a partire da quegli anni la Specola Vaticana – ancor oggi in attività, fondata e sempre diretta da gesuiti – consolida la sua fama di istituto scientifico tra i più prestigiosi e rigorosi nel mondo. Tanto che, quando gli italiani giungono a Roma, nel 1870, si affrettano a fare un’eccezione al loro programma di cacciare i religiosi, quelli della Compagnia di Gesù innanzitutto.
Il governo dell’Italia anticlericale e massonica fa votare così dal Parlamento una legge speciale per mantenere come direttore a vita dell’Osservatorio già papale il padre Angelo Secchi, uno dei maggiori studiosi del secolo, tra i fondatori dell’astrofisica, uomo la cui fama è talmente universale che petizioni giungono da tutto il mondo civile per ammonire i responsabili della “nuova Italia” che non intralcino un lavoro giudicato prezioso per tutti.
Se la scienza sembra emigrare, a partire dal Seicento, prima nel Nord Europa e poi oltre Atlantico – fuori, cioè, dall’orbita di regioni cattoliche – le cause sono legate al diverso corso assunto dalla scienza stessa. Innanzitutto, i nuovi, costosi strumenti (dei quali proprio Galileo è tra i pionieri) esigono fondi e laboratori che solo i Paesi economicamente sulla cresta dell’onda possono permettersi, non certo l’Italia occupata dagli stranieri o la Spagna in declino, rovinata dal suo stesso trionfo.
La scienza moderna, poi, a differenza di quella antica, si lega direttamente alla tecnologia, cioè alla sua utilizzazione diretta e concreta. Gli antichi coltivavano gli studi scientifici per se stessi, per gusto della conoscenza gratuita, pura. 1 greci, ad esempio, conoscevano le possibilità del vapore di trasformarsi in energia ma, se non adattarono a macchina da lavoro quella conoscenza, è perché non avrebbero considerato degno di un uomo libero, di un “filosofo” come era anche lo scienziato, darsi a simili attività “utilitarie”. (Un atteggiamento che contrassegna del resto tutte le società tradizionali: i cinesi, che da tempi antichissimi fabbricavano la polvere nera, non la trasformarono mai in polvere da sparo per cannoni e fucili, come fecero poi gli europei del Rinascimento, ma l’impiegarono solo per fini estetici, per fare festa con i fuochi artificiali. E gli antichi egizi riservavano le loro straordinarie tecniche edilizie solo a templi e tombe, non per edifici “profani”).
E’ chiaro che, da quando la scienza si mette al servizio della tecnologia, essa può svilupparsi soprattutto tra popoli, come quelli nordici, che conoscono una primissima rivoluzione industriale; che hanno – come gli olandesi o gli inglesi – grandi flotte da costruire e da utilizzare; che abbisognano di equipaggiamento moderno per gli eserciti, di infrastrutture territoriali, e così via.
Mentre, cioè, prima, la scienza era legata solo all’intelligenza, alla cultura, alla filosofia, all’arte stessa, a partire dall’epoca moderna è legata al commercio, all’industria, alla guerra. Al denaro, insomma.
Che questa – e non la pretesa “persecuzione cattolica” di cui, l’abbiamo visto, parlano anche storici cattolici – sia la causa della relativa inferiorità scientifica dei popoli restati legati a Roma, lo dimostra anche l’intolleranza protestante di cui quasi mai si parla e che è invece massiccia e precoce.
Copernico, da cui tutto inizia (e nel cui nome Galileo sarebbe stato “perseguitato”) è un cattolicissimo polacco. Anzi, è addirittura un canonico che installa il suo rudimentale osservatorio su un torrione della cattedrale di Frauenburg. L’opera fondamentale che pubblica nel 1543 – La rotazione dei corpi celesti – è dedicata al papa Paolo III, anch’egli, tra l’altro, appassionato astronomo. L’imprimatur è concesso da un cardinale proveniente da quei domenicani nel cui monastero romano Galileo ascolterà la condanna.
Il libro del canonico polacco ha però una singolarità: la prefazione è di un protestante che prende le distanze da Copernico, precisando che si tratta solo di ipotesi, preoccupato com’è di possibili conseguenze per la Scrittura. Il primo allarme non è dunque di parte cattolica: anzi, sino al dramma finale di Galileo, si succedono ben undici papi che non solo non disapprovano la teoria “eliocentrica” copernicana, ma spesso l’incoraggiano.
Lo scienziato pisano stesso è trionfalmente accolto a Roma e fatto membro dell’Accademia pontificia anche dopo le sue prime opere favorevoli al sistema eliocentrico.
Ecco, invece, la reazione testuale di Lutero alle prime notizie sulle tesi di Copernico: “La gente presta orecchio a un astrologo improvvisato che cerca in tutti i modi di dimostrare che è la Terra a girare e non il Cielo. Chi vuol far sfoggio di intelligenza deve inventare qualcosa e spacciarlo come giusto. Questo Copernico, nella sua follia, vuol buttare all’aria tutti i princìpi dell’astronomia“. E Melantone, il maggior collaboratore teologico di fra Martino, uomo in genere piuttosto equilibrato, qui si mostra inflessibile: “Simili fantasie da noi non saranno tollerate“.
Non si trattava di minacce a vuoto: il protestante Keplero, fautore del sistema copernicano, per sfuggire ai suoi correligionari che lo giudicano blasfemo perché parteggia per una teoria creduta contraria alla Bibbia, deve scappare dalla Germania e rifugiarsi a Praga, dopo essere stato espulso dal collegio teologico di Tubinga. Ed è significativo quanto ignorato (come, del resto, sono ignorate troppe cose in questa vicenda) che giunga al “copernicano” e riformato Keplero un invito per insegnare proprio nei territori pontifici, nella prestigiosissima università di Bologna.
Sempre Lutero ripeté più volte: “Si porrebbe fuori del cristianesimo chi affermasse che la Terra ha più di seimila anni“. Questo “letteralismo”, questo “fondamentalismo” che tratta la Bibbia come una sorta di Corano (non soggetta, dunque a interpretazione) contrassegna tutta la storia del protestantesimo ed è del resto ancora in pieno vigore, difeso com’è dall’ala in grande espansione – negli Usa e altrove – di Chiese e nuove religioni che si rifanno alla Riforma.
A proposito di università (e di “oscurantismo”): ci sarà pure una ragione se, all’inizio del Seicento, proprio quando Galileo è sulla quarantina, nel pieno del vigore della ricerca, di università – questa tipica creazione del Medio Evo cattolico – ce ne sono 108 in Europa, alcune altre nelle Americhe spagnole e portoghesi e nessuna nei territori non cristiani.
E ci sarà pure una ragione se le opere matematiche e geometriche degli antichi (prima fra tutte quelle di Euclide) che costituirono la base fondamentale per lo sviluppo della scienza moderna, giunsero a noi soltanto perché ricopiate dai monaci benedettini e, appena inventata la tipografia, stampate sempre a cura di religiosi.
Qualcuno ha addirittura rilevato che, proprio in quell’inizio del Seicento, è un Grande Inquisitore di Spagna che fonda a Salamanca la facoltà di scienze naturali dove si insegna con favore la teoria copernicana…
Storia complessa, come si vede. Ben più complessa di come abitualmente ce la raccontino. Bisognerà parlarne ancora.
Qualcuno ha fatto notare un paradosso: è infatti più volte successo che la Chiesa sia stata giudicata attardata, non al passo con i tempi. Ma il prosieguo della storia ha finito col dimostrare che, se sembrava anacronistica, è perché aveva avuto ragione troppo presto.
E’ successo, ad esempio, con la diffidenza per il mito entusiastico della “modernità”, e del conseguente “progresso”, per tutto il XIX secolo e per buona parte del XX. Adesso, uno storico come Émile Poulat può dire: “Pio IX e gli altri papi “reazionari” erano in ritardo sul loro tempo ma sono divenuti dei profeti per il nostro. Avevano forse torto per il loro oggi e il loro domani: ma avevano visto giusto per il loro dopodomani, che è poi questo nostro tempo postmoderno che scopre l’altro volto, quello oscuro, della modernità e del progresso“.
E’ successo, per fare un altro esempio, con Pio XI e Pio XII, le cui condanne del comunismo ateo erano sino a ieri sprezzate come “conservatrici”, “superate”, mentre ora quelle cose le dicono gli stessi comunisti pentiti (quando hanno sufficiente onestà per riconoscerlo) e rivelano che quegli “attardati” di papi avevano una vista che nessun altro ebbe così acuta. Sta succedendo, per fare un altro esempio, con Paolo VI, il cui documento che appare e apparirà sempre più profetico è anche quello che fu considerato il più “reazionario”: l’Humanae Vitae.
Oggi siamo forse in grado di scorgere che il paradosso si è verificato anche per quel “caso Galileo” che ci ha tenuti impegnati per i due frammenti precedenti.
Certo, ci si sbagliò nel mescolare Bibbia e nascente scienza sperimentale. Ma facile è giudicare con il senno di poi: come si è visto, i protestanti furono qui assai meno lucidi; anzi, assai più intolleranti dei cattolici. E certo che in terra luterana o calvinista Galileo sarebbe finito non in villa, ospite di gerarchi ecclesiastici, ma sul patibolo.
Dai tempi dell’antichità classica sino ad allora, in tutto l’Occidente, la filosofia comprendeva tutto lo scibile umano, scienze naturali comprese: oggi ci è agevole distinguere, ma a quei tempi non era affatto così; la distinzione cominciava a farsi strada tra lacerazioni ed errori.
D’altro canto, Galileo suscitava qualche sospetto perché aveva già mostrato di sbagliare (sulle comete, ad esempio) e proprio su quel suo prediletto piano sperimentale; non aveva prove a favore di Copernico, la sola che portava era del tutto erronea.
Un santo e un dotto della levatura di Roberto Bellarmino si diceva pronto – e con lui un’altra figura di altissima statura come il cardinale Baronio – a dare alla Scrittura (la cui lettera sembrava più in sintonia col tradizionale sistema tolemaico) un senso metaforico, almeno nelle espressioni che apparivano messe in crisi dalle nuove ipotesi astronomiche; ma soltanto se i copernicani fossero stati in grado di dare prove scientifiche irrefutabili. E quelle prove non vennero se non un secolo dopo.
Uno studioso come Georges Bené pensa addirittura che il ritiro deciso dal Sant’Uffizio del libro di Galileo fosse non solo legittimo ma doveroso, e proprio sul piano scientifico: “Un po’ come il rifiuto di un articolo inesatto e senza prove da parte della direzione di una moderna rivista scientifica“. D’altro canto, lo stesso Galileo mostrò come, malgrado alcuni giusti princìpi da lui intuiti, il rapporto scienza-fede non fosse chiaro neppure per lui.
Non era sua, ma del cardinal Baronio (e questo riconferma l’apertura degli ambienti ecclesiastici) la formula celebre: “L’intento dello Spirito Santo, nell’ispirare la Bibbia, era insegnarci come si va al Cielo, non come va il cielo“.
Ma tra le cose che abitualmente si tacciono è la sua contraddizione, l’essersi anch’egli impelagato nel “concordismo biblico”: davanti al celebre versetto di Giosuè che ferma il Sole non ipotizzava per niente un linguaggio metaforico, restava anch’egli sul vecchio piano della lettura letterale, sostenendo che Copernico poteva dare a quella “fermata” una migliore spiegazione che Tolomeo. Mettendosi sullo stesso piano dei suoi giudici, Galileo conferma quanto fosse ancora incerta la distinzione tra il piano teologico e filosofico e quello della scienza sperimentale.
Ma è forse altrove che la Chiesa apparve per secoli arretrata, perché era talmente in anticipo sui tempi che soltanto ora cominciamo a intuirlo. In effetti – al di là degli errori in cui possono essere caduti quei dieci giudici, tutti prestigiosi scienziati e teologi, nel convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, e forse al di là di quanto essi stessi coscientemente avvertivano – giudicando una certa baldanza (se non arroganza) di Galileo, stabilirono una volta per sempre che la scienza non era né poteva divenire una nuova religione; che non si lavorava per il bene dell’uomo e neppure per la Verità, creando nuovi dogmi basati sulla “Ragione- al posto di quelli basati sulla Rivelazione.
“La condanna temporanea (donec corrigatur, fino a quando non sia corretta, diceva la formula) della dottrina eliocentrica, che dai suoi paladini era presentata come verità assoluta, salvaguardava il principio fondamentale che le teorie scientifiche esprimono verità ipotetiche, vere ex suppositione, per ipotesi e non in modo assoluto“. Così uno storico d’oggi.
Dopo oltre tre secoli di quella infatuazione scientifica, di quel terrorismo razionalista che ben conosciamo, c’è voluto un pensatore come Karl Popper per ricordarci che inquisitori e Galileo erano, malgrado le apparenze, sullo stesso piano.
Entrambi, infatti, accettavano per fede dei presupposti fondamentali sulla cui base costruivano i loro sistemi. Gli inquisitori accettavano come autorità indiscutibili (anche sul piano delle scienze naturali) la Bibbia e la Tradizione nel loro senso più letterale.
Ma anche Galileo e, dopo di lui, tutta la serie infinita degli scientisti, dei razionalisti, degli illuministi, dei positivisti – accettava in modo indiscusso, come nuova Rivelazione, l’autorità del ragionare umano e dell’esperienza dei nostri sensi.
Ma chi ha detto (e la domanda è di un laico agnostico come Popper) – se non un’altra specie di fideismo – che ragione ed esperienza, che testa e sensi ci comunichino il “vero”? Come provare che non si tratta di illusioni, così come molti considerano illusioni le convinzioni su cui si basa la fede religiosa?
Soltanto adesso, dopo tanta venerazione e soggezione, diveniamo consapevoli che anche le cosiddette “verità scientifiche” non sono affatto “verità” indiscutibili a priori, ma sempre e solo ipotesi provvisorie, anche se ben fondate (e la storia in effetti è lì a mostrare come ragione ed esperienza non abbiano preservato gli scienziati da infinite, clamorose cantonate, malgrado la conclamata “oggettività e infallibilità della Scienza”).
Questi non sono arzigogoli apologetici, sono dati ben fondati sui documenti: sino a quando Copernico e tutti i copernicani (numerosi, lo abbiamo visto, anche tra i cardinali, magari tra i papi stessi) restarono sul piano delle ipotesi, nessuno ebbe da ridire, il Sant’Uffizio si guardò bene dal bloccare una libera discussione sui dati sperimentali che via via venivano messi in campo.
L’irrigidimento avviene soltanto quando dall’ipotesi si vuol passare al dogma, quando si sospetta che il nuovo metodo sperimentale in realtà tenda a diventare religione, quello “scientismo” in cui in effetti degenererà. “In fondo, la Chiesa non gli chiedeva altro che questo: tempo, tempo per maturare, per riflettere quando, per bocca dei suoi teologi più illuminati, come il santo cardinale Bellarmino, domandava al Galilei di difendere la dottrina copernicana ma solo come ipotesi e quando, nel 1616, metteva all’Indice il De revolutionibus di Copernico solo donec corrigatur, e cioè finché non si fosse data forma ipotetica ai passi che affermavano il moto della Terra in forma assoluta. Questo consigliava Bellarmino: raccogliete i materiali per la vostra scienza sperimentale senza preoccuparvi, voi, se e come possa organizzarsi nel corpus aristotelico. Siate scienziati, non vogliate fare i teologi!” (Agostino Gemelli).
Galileo non fu condannato per le cose che diceva; fu condannato per come le diceva. Le diceva, cioè, con un’intolleranza fideistica, da missionario del nuovo Verbo che spesso superava quella dei suoi antagonisti, pur considerati “intolleranti” per definizione.
La stima per lo scienziato e l’affetto per l’uomo non impediscono di rilevare quei due aspetti della sua personalità che il cardinale Paul Poupard ha definito come “arroganza e vanità spesso assai vive“. Nel contraddittorio, il Pisano aveva di fronte a sé astronomi come quei gesuiti del Collegio Romano dai quali tanto aveva imparato, dai quali tanti onori aveva ricevuto e che la ricerca recente ha mostrato nel loro valore di grandi, moderni scienziati anch’essi “sperimentali”.
Poiché non aveva prove oggettive, è solo in base a una specie di nuovo dogmatismo, di una nuova religione della Scienza che poteva scagliare contro quei colleghi espressioni come quelle che usò nelle lettere private: chi non accettava subito e tutto il sistema copernicano era (testualmente) “un imbecille con la testa tra le nuvole“, uno “appena degno di essere chiamato uomo“, “una macchia sull’onore del genere umano“, uno “rimasto alla fanciullaggine“; e via insultando. In fondo, la presunzione di essere infallibile sembra più dalla sua parte che da quella dell’autorità ecclesiastica.
Non si dimentichi, poi, che, precorrendo anche in questo la tentazione tipica dell’intellettuale moderno, fu quella sua “vanità”, quel gusto di popolarità che lo portò a mettere in piazza, davanti a tutti (con sprezzo, tra l’altro della fede dei semplici), dibattiti che proprio perché non chiariti dovevano ancora svolgersi, e a lungo, tra dotti. Da qui, tra l’altro, il suo rifiuto del latino: “Galileo scriveva in volgare per scavalcare volutamente i teologi e gli altri scienziati e indirizzarsi all’uomo comune. Ma portare questioni così delicate e ancora dubbie immediatamente a livello popolare era scorretto o, almeno, era una grave leggerezza” (Rino Cammilleri).
Di recente, l’erede” degli inquisitori, il Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, cardinale Ratzinger, ha raccontato di una giornalista tedesca – una firma famosa di un periodico laicissimo, espressione di una cultura “progressista” – che gli chiese un colloquio proprio sul riesame del caso-Galileo. Naturalmente, il cardinale si aspettava le solite geremiadi sull’oscurantismo e dogmatismo cattolici. Invece, era il contrario: quella giornalista voleva sapere “perché la Chiesa non avesse fermato Galileo, non gli avesse impedito di continuare un lavoro che è all’origine del terrorismo degli scienziati, dell’autoritarismo dei nuovi inquisitori: i tecnologi, gli esperti…“.
Ratzinger aggiungeva di non essersi troppo stupito: semplicemente quella redattrice era una persona aggiornata, era passata dal culto tutto “moderno” della Scienza alla consapevolezza “postmoderna” che scienziato non può essere sinonimo di sacerdote di una nuova fede totalitaria.
Sulla strumentalizzazione propagandistica che è stata fatta di Galileo, trasformato – da uomo con umanissimi limiti, come tutti, quale era – in un titano del libero pensiero, in un profeta senza macchia e senza paura, ha scritto cose non trascurabili la filosofa cattolica (uno dei pochi nomi femminili di questa disciplina) Sofia Vanni Rovighi. Sentiamo: “Non è storicamente esatto vedere in Galileo un martire della verità, che alla verità sacrifica tutto, che non si contamina con nessun altro interesse, che non adopera nessun mezzo extra-teorico per farla trionfare, e dall’altra parte uomini che per la verità non hanno alcun interesse, che mirano al potere, che adoperano solo il potere per trionfare su Galileo. In realtà ci sono invece due parti, Galileo e i suoi avversari, l’una e l’altra convinte della verità della loro opinione, l’una e l’altra in buona fede ma che adoperano l’una e l’altra anche mezzi extra-teorici per far trionfare la tesi che ritengono vera.
Né bisogna dimenticare che, nel 1616, l’autorità ecclesiastica fu particolarmente benevola con Galileo e non lo nominò neppure nel decreto di condanna e nel 1633, sebbene sembrasse procedere con severità, gli concesse ogni possibile agevolazione materiale.
Secondo il diritto di allora, prima, durante e, se condannato, dopo la procedura, Galileo avrebbe dovuto essere in carcerato; e invece non solo in carcere non fu neanche per un’ora, non solo non subì alcun maltrattamento, ma fu alloggiato e trattato con ogni conforto“.
Ma continua la Vanni Rovighi, quasi con particolare sensibilità femminile verso le povere figlie del grande scienziato: “Non è poi equo operare con due pesi e due misure e parlare di delitto contro lo spirito quando si allude alla condanna di Galileo, ma non battere ciglio quando si narra della monacazione forzata che egli impose alle sue due figliuole giovinette, facendo di tutto per eludere le savie leggi ecclesiastiche che tutelavano la dignità e libertà personale delle giovani avviate alla vita religiosa, col fissare un limite minimo di età per i voti.
Si osserverà che quell’azione di Galileo va giudicata tenendo presente l’epoca storica, che Galileo cercò di rimediare, di farsi perdonare quella violenza, usando gran e bontà soprattutto verso Virginia, divenuta suor Maria Celeste; e noi troviamo giustissime queste considerazioni, ma domandiamo che egual metro di comprensione storica e psicologica venga usato anche quando si giudicano gli avversari di Galileo“.
Prosegue la studiosa: “Occorrerà anche tenere presente questo: quando si condanna severamente l’autorità che giudicò Galileo ci si mette da un punto di vista morale (da un punto di vista intellettuale, infatti, è pacifico che ci fu errore nei giudici; ma l’errore non è delitto e non si dimentichi mai che ciò non riguarda affatto la fede: sia il giudizio del 1616 che quello del 1633 sono decreti di una Congregazione romana approvati dal papa in forma communi e come tali non cadono sotto la categoria delle affermazioni nelle quali la Chiesa è infallibile; si tratta di decreti di uomini di Chiesa, non certo di dogmi della Chiesa).
Se ci si pone, dunque, a un punto di vista morale, non bisogna confondere questo valore con il successo. Tanto vale il tormento dello spirito del grande Galileo quanto il tormento dello spirito sconvolto della povera suor Arcangela, monacata a forza dal padre a 12 anni.
E se poi si osserva che – diamine! – Galileo è Galileo, mentre suor Arcangela non è che un’oscura donnetta, per concludere almeno implicitamente che tormentare l’uno è colpa ben più grave che tormentare l’altra, ci si lascia affascinare dal potere e dal successo. Ma da questo punto di vista non ha più senso parlare di spirito: né per stigmatizzare i delitti compiuti contro di esso né per esaltarne le vittorie“.
Testo tratto da: Vittorio Messori , “Pensare la storia” , Sugarco Edizioni, pp. 383-397